Depressione… va bene, e quindi? Aiuta questa parola a capire perché ad un certo punto alcune vite improvvisamente si spezzano come un ponte che crolla aprendo una voragine nel cammino ordinario dei giorni? No, non aiuta.
Le ragioni possono essere tante e nessuna. E poi, quanta confusione nei ricordi e nei racconti. Reticenze, omissioni, depistaggi…  Serve uno sguardo che sappia scrutare nel buio, scegliere e scartare, stabilire gerarchie, rendere intellegibili i fatti mettendoli in ordine logico nulla al vero detraendo. Mica facile, in poche parole serve un grande autore. In fin dei conti le uniche pratiche che aiutano a capire qualcosa di certe strane e complesse dinamiche umane sono le sperimentazioni in vitro dei romanzi. Come L’orsacchiotto, il nuovo Simenon di Adelphi, apparso in Francia nel 1960. Il professor Chabot, il protagonista, è un caso clinico.

  • Tutto fila liscio nella sua vita di quasi cinquantenne. Parigi anni sessanta, Parigi da bere. Il Sessantotto è lontano. Lavoro, famiglia, amante. Stimato ginecologo ai vertici della professione, luminare, comproprietario di una prestigiosa clinica, responsabile della Maternità di Port-Royal. Appartamento di dodici stanze al Bois de Boulogne. Affetti familiari ormai sciapi ma consolidati, percorsi divaricati, vita domestica senza gravami particolari. Amante servizievole con funzione di autista e segretaria, silenziosa, obbediente e sempre disponibile. Compagna di letto e di cene, ma mantenendo sempre il lei. Di contro un bel carico di lavoro, ritmi serrati. Ma non è quello, o è anche quello… forse, chissà.

Il punto è che l’esimio professore più che stanco è disamorato di tutto. Qualcosa si è spento. Succede, ad una certa età, quando un po’ tutti i traguardi sono stati raggiunti e sembra di essere lì, ad amministrare il proprio successo solo per dovere nei confronti degli altri.

In ogni caso la brutta bestia è in sonno. Comincia il suo sporco lavoro quando un giovane con dolente ma determinata e sfrontata aria di sfida sotto il tergicristallo della macchina lascia al professore un bigliettino con scritto: Ti ucciderò. Non è tanto la paura di morire, o è anche quello… forse, chissà. Il punto è che quel giovane potrebbe essere il fratello, il fidanzato o comunque qualcuno legato ad un’infermiera che una notte in clinica il professore aveva preso nel sonno o nel dormiveglia o chissà: «Quando si era chinato a toccarle una spalla, non si era svegliata. Aveva avuto semplicemente un fremito lungo tutto il corpo, come se quel contatto fosse entrato nel suo sogno».

Per il professore quei momenti erano stati incanto, commozione, tenerezza: «Chi gli avrebbe creduto, adesso, se avesse parlato di tenerezza? Eppure era stato un gesto tenero quello con cui aveva scostato il camice per liberare i seni: erano caldi e pesanti nelle sue mani e lei era trasalita di nuovo mentre, questa volta, un sorriso soffuso le affiorava sul volto».

La scrittura di Simenon è di chirurgica, ben calibrata impetuosità, una concatenazione inscindibile di parole adamantine. Se cominci a citarlo, come quando lo leggi, è difficile smettere. I due capoversi successivi sono gioielli. Non possiamo fermarci, continuiamo.

Sempre pagina 43. Primo: «Mesi dopo, Chabot non avrebbe saputo dire se, quella notte, lei fosse stata cosciente di ciò che accadeva. La sua pelle da bionda era morbida e, nella leggera umidità del letto, dove lei sembrava così innocente, lo aveva fatto pensare a uno di quegli orsacchiotti di peluche che i bambini tengono abbracciati dormendo».

Secondo: «Non cercava scuse, si rifiutava di spiegare il suo gesto. Nel profondo, di fronte alla sua coscienza, era sicuro di una sola cosa: di non essere mai stato altrettanto puro in vita sua».

Poi succede che lei venga frettolosamente licenziata e che lui non si opponga. Poi succede che lei lo cerchi in una notte di pioggia e che lui la ignori allontanandosi inerte in macchina con la segretaria-amante-autista. Poi succede che lei venga ritrovata nella Senna. Incinta. Quell’ora d’amore, replicata e condivisa nelle pochissime altre fugaci occasioni di una settimana, era stato per il professore il dono più bello della sua vita, forse l’unico.

Per lui di umili origini ogni conquista era stata una dura lotta. E anche dopo tante vittorie era rimasto «incapace di mescolarsi con gli altri». Estraneo alle sue stesse parole che sentiva «cadere nel vuoto». Rintanato nell’eccellenza della professione come «lo stregone della tribù». Aggrappato al cognac con la vergona di bere di nascosto senza ubriacarsi per non farsi scoprire. E, infine, in simbiosi con una pistola ripescata quasi per caso da un cassetto. Si sa che quando in un romanzo compare una pistola, poi quella pistola sparerà. Sarà anche questa volta così? E contro chi? Intanto per il professore tutti sono possibili testimoni e dopo ogni incontro si chiede: poi, quando quella persona lì l’interrogheranno, cosa dirà?

No, non è il rimorso e neppure la vergogna, a sconquassare la vita del professor Chabot, o forse è anche quella roba lì, chissà. È che certe volte semplicemente la vita si apre al tuo cuore in tutta la sua grandezza e, mentre la guardi incantato, come la luna le maree quella tira fuori da te ogni cosa e ti scopri piccolo e gretto al cospetto della sua regale maestosità. Inadeguato. Come il professor Chabot di fronte all’inatteso dono d’amore di quell’orsacchiotto non di peluche. «Nessuno, mai, si era preoccupato di dargli… dargli cosa? Cercò la parola e scoprì che non era necessaria. Dargli, semplicemente. Dargli, loro, qualcosa a lui». Quando poi qualcuno ti dà una gioia che non t’aspetti, non sai meritarla. E non puoi sopportarlo.

 

Georges Simenon, L’orsacchiotto, Adelphi, 2023