Certi punti del corpo sono nodi energetici, dice l’agopuntura. Se li tocchi, modifichi l’equilibrio somatico e curi diversi disturbi. Forse è scienza, forse no. Di sicuro, però, alcune delle storie che restano nella memoria funzionano proprio così. Sono particolari, minuscole come i punti dell’agopuntura, ma chi le tocca nel modo giusto inevitabilmente attiva scenari ampi e complessi di mali antichi, tentativi coraggiosi, speranze tradite. In altre parole: zone vitali della Storia, quella con la maiuscola.
I figli del gesuita racconta una storia così perché dal blocco di marmo dei documenti in cui era celata Francesco Mercurio ha saputo estrarre l’epica grandezza dell’origine dei comuni dei cinque Reali siti in provincia di Foggia: Ordona, Carapelle, Ortanova, Stornara e Stornarella.
Sabato 13 novembre 1767 è una notte piovosa. Don Pietro Antonio Torelli, regio uditore del tribunale della Dogana di Foggia, è intento ad amene letture di nicchia, come don Abbondio la famosa notte degli imbrogli, quando irrompe nel palazzo un procaccio da Napoli con una lettera di sua maestà, re Ferdinando IV, che ingiunge l’immediata espulsione, lo sfratto e il sequestro di beni e capitali dei gesuiti del regno e, quindi, la confisca delle loro proprietà nel territorio della Dogana.
I gesuiti, sconfitti, pagavano così la loro intuizione in anticipo sui tempi della necessità dell’apertura della Chiesa al mercato globale con opportuno rispetto e tolleranza degli altri culti. Entro questo scenario geopolitico comincia nella nostra terra una delle più affascinanti sfide dell’Illuminismo riformatore del Settecento.
L’idea del potente segretario di stato, don Bernardo Tanucci, era, infatti, quella di utilizzare l’enorme proprietà dei gesuiti della Casa d’Orta per un grande esperimento sociale di riforma agraria: assegnare quelle terre a nuovi coloni reclutati con un bando fra «poveri e timorati di Dio» di vari paesi del regno, fra cui Ascoli, alcuni centri della Basilicata, Barletta, Casal Trinità e Rignano.
Costoro avrebbero avuto dieci versure, una casa, animali, strumenti da lavoro e sementi in cambio di un canone di soli 18 ducati all’anno e l’impegno del re a recuperare il prestito iniziale con rate comode e molto dilazionate. L’incarico di sovrintendere alla delicata operazione fu affidato a don Nicola De Dominicis, un convinto «novatore», uno dei migliori funzionari regi in Puglia.
Infine furono circa 420 «i padri fondatori» che dal 1774 popolarono con le loro famiglie quelle campagne molto malariche, perlopiù desertiche, fino allora utilizzate quasi soltanto per il pascolo e d’estate infuocate come un girone infernale. Erano gli ultimi della terra, erano «pitocchi», fuggivano dalla fame. Sognavano «la grascia». Sfidarono difficoltà e tempi lunghi delle nuove colture. Dovettero scontrarsi con promesse mancate, esigenze di cassa del governo centrale, cavilli burocratici e «ammuina» dei «curiali», cupidigia dei latifondisti «maspoderosi», rivalità interne, furbizie e incapacità di non pochi fra loro. Subirono i contraccolpi di fibrillazioni e ribaltamenti politici, l’incapacità astiosa e malevola del nuovo sovrintendente, don Emilio Minossi. Passarono per altre due «censuazioni», 1777 e 1807, quest’ultima con Giuseppe Bonaparte.
Infine, come sono andate le cose? Che ne è stato di quei coloni e di «quell’opera grande e nascente» di creazione nelle campagne del Tavoliere di un nuovo soggetto sociale di piccola borghesia agraria produttiva, fiera e indipendente? I figli del gesuita è la storia di un’idea che riverberava una magia europea.
Si legge con il piacere e la tensione di un libro d’avventura o di un giallo. Chi si addentra nelle pagine, infatti, sempre più vuol sapere che frutti quell’idea abbia dato o se qualcuno, chi e come l’abbia invece assassinata, condannando la nostra gente alla servitù e alla miseria di sempre, benché diversamente acconciate.
Certo è che i coloni l’avevano giurato, d’essere liberi e forti. Convocati dall’irriducibile Biase Scuccimarra, il più carismatico dei «padri fondatori», domenica 25 luglio 1779 s’incontrarono per fare festa e firmare una petizione contro il sovrintendente Minossi da consegnare a corte a Napoli.
«Era finito il tempo delle furbizie e delle doppiezze dei servi. Loro non appartenevano più a quelle schiere. Onoravano i propri doveri. Il rispetto chiama rispetto… Arrivarono alla spicciolata un po’ tutti gli amici di Biase. Si decise di mandare Biase stesso a Napoli, si dispose una colletta per pagare viaggio, vitto e alloggio, per liquidare l’onorario all’avvocato che aveva stilato due memoriali.»
È Marzo 1821. Possiamo immaginare gli stessi sguardi fieri e le parole solenni. È l’emozionante atto di fondazione di una comunità. Il germoglio comune di ogni democrazia. Cosa poi ne sarà, anche di questo «moto», chi leggerà saprà.
Oltre a quelle da lui ricordate, come un bravo sovrintendente «novatore», una «censuazione» l’ha fatta anche l’autore, dando a ogni possibilità letteraria la sua parte. Colpisce, infatti, nel testo di Francesco Mercurio la ripartizione del racconto in tanti modi narrativi.
C’è la classica terza persona onnisciente con funzione di raccordo e riflessione. Ci sono svariati inserti in corsivo dalle tante fonti d’epoca riportate nella corposa bibliografia in appendice. Ci sono ampie sintesi storiche distinte da un diverso carattere. C’è poi la toccante spoon river in prima persona dei numerosi coloni che in poche parole ben concentrate raccontano dall’aldilà le proprie vicende di ambizioni, speranze e sofferenze, fra un impressionante numero di morti infantili e tappe solenni della vita bruciate in un confronto serrato sin da giovanissimi.
In queste pagine i «padri fondatori» dei Reali siti davvero li vedi incedere imperiosi come gli umili nel Quarto stato di Pellizza da Volpedo. E ti senti orgoglioso d’essere un terrone come loro.
Francesco Mercurio, I figli del gesuita, Claudio Grenzi editore, 2015