«In realtà è una storia lunga, ma sarò breve.» Istanbul Istanbul di Burhan Sönmez comincia così, con queste parole di Demirtay lo Studente. Istanbul Istanbul è una lotta con il tempo. A pagina 105 il vecchio rivoluzionario Küheylan racconta: «Il tempo che ticchettava nei reparti maternità, nelle strade e nei bar notturni giocava con la velocità. L’essere umano dimenticava il sole, la luna e le stelle e viveva solo di ore…». Questa continua corsa ci immiserisce: «L’ora del lavoro, l’ora della scuola, l’ora dell’appuntamento, l’ora del mangiare, l’ora di uscire. Alla fine, all’ora di andare a dormire non gli rimaneva né la forza né la voglia di pensare al mondo».
Demirtay e Küheylan, invece, insieme ai loro due compagni di prigionia: Kamo il Barbiere e Il Dottore, hanno necessità di pensare al mondo e dargli corpo con le proprie parole. Solo questo, infatti, gli rimane, fra una tortura e l’altra nei sotterranei di Istanbul. Ricordi, riflessioni, sogni, dubbi, aneddoti, interrogativi, indovinelli… quattro narratori, dunque, provano a resistere a un dolore disperato e cercano riscatto raccontandosi storie.
Come nel Decamerone, citato con analisi comparata a pagina 164: «Ma i giovani del Decamerone sono più fortunati di noi… Loro se ne erano andati via volontariamente, mentre noi siamo stati portati qui contro la nostra volontà. Ancora peggio, loro si erano allontanati dalla morte, noi, invece, le andiamo incontro».
La prigione come un lager: Istanbul Istanbul, quindi, fa venire in mente quel capitolo undicesimo di Se questo è un uomo in cui Levi, rinchiuso in uno dei campi di concentramento di Auschwitz, cerca di ricordarsi i versi del canto XXVI dell’Inferno per recitarli a un compagno francese. Anche nel romanzo di Sönmez, contro l’ottusa ferocia del potere, l’unica salvezza è la solidarietà attorno ai valori più alti della specie che la parola trasmette e costruisce.
Istanbul Istanbul è una sfida contro il tempo: riuscirà la piccola comunità dei quattro carcerati a cementare la propria unità attraverso lo scambio delle reciproche esperienze o l’inaudita violenza cui sono sottoposti fiaccherà la loro resistenza e metterà l’uno contro l’altro alla ricerca ciascuno di una salvezza individuale?Una delle scene più forti del romanzo è a pagina 184. Dopo aver brutalmente preso a calci il cadavere di una donna per il gusto di vedere l’orrore nel volto degli altri prigionieri, il carceriere appunta lo sguardo su un orologio vicino alla mano della poveretta: «Rimase assorto per un po’, come se non sapesse a cosa serviva. Poi, con gli stivali ricoperti di sangue e fango calpestò l’orologio… Non era un orologio qualunque, sotto i suoi piedi c’erano il passato e il presente, ieri e oggi… Come i potenti faraoni, credeva di essere a livello degli dèi e non a quello degli uomini…».
A che serve tutto questo nostro dolore – chiede subito dopo Demirtay lo Studente – se la gente su, nella città che corre non ne sa nulla? Manca una lingua comune, Dio è assente e gli esseri umani non s’intendono più fra loro, come quando tentarono l’assalto al cielo con la Torre di Babele: «Diventando più potenti, gli uomini allungavano le loro ombre e guardandole, perdevano di vista il bene… Avevano rimpiazzato il bene con il giusto e il giusto con calcoli di guadagno e di perdita… Tutto ciò che era rimasto agli uomini per ricordargli il bene era il dolore. Qui sotto, pensavamo di più al bene perché sopportavamo il dolore come metro del nostro valore». Ma quanto durerà questa resistenza? Potrà mai il tempo fluire al contrario, dal basso della prigione verso l’alto della città distratta? Ogni città è Istanbul. Quei quattro prigionieri siamo noi.
Istanbul Istanbul, anche grazie all’ottima traduzione di Anna Valerio, è un libro magico perché all’urgenza d’impegno civile unisce sia una chiara universalità filosofica sia una suggestivo radicamento descrittivo nell’incanto della metropoli turca, la più popolosa d’Europa, l’unica città al mondo su due continenti.
Burhan Sönmez, Ankara 1965, è cresciuto parlando turco e curdo, è avvocato specializzato in diritti umani, vive fra Cambridge e Ankara, dove insegna Letteratura all’Università ODTÜ. Ferito durante uno scontro con la polizia nel 1996, è stato curato in Gran Bretagna col sostegno della fondazione “Freedom for Torture”. Ha cominciato a scrivere nei mesi di riabilitazione. Oggi i suoi libri sono tradotti in venti paesi.
Burhan Sönmez, Istanbul Istanbul, Nottetempo, 2016
Di Burhan Sönmez puoi leggere anche la recensione di Labirinto