Impalcature è un’Odissea, Javier è Ulisse e Mario Benedetti non è Omero ma è lo stesso un grande. Impalcature è un nostos, un ritorno a casa, nella «godibile e luminosa Montevideo, una città-porto che guarda solo al mare, a quello che noi chiamiamo mare, mentre non è che un fiume (il più ampio del mondo, questo sì)». I dodici anni di esilio dell’autore e quelli del suo protagonista valgono i venti di lontananza da Itaca dell’eroe greco. Il romanzo è la storia di Javier che al suo rientro in patria dopo gli anni duri della dittatura, solo quarantasettenne ma molto provato dalla vita, si guarda dentro e pescando nei ricordi trova nostalgie, persone amate e abbandonate, poi riabbracciate o perse per sempre.

  • Più che al solido rigore geometrico di una costruzione con tanti livelli cui si riferisce il titolo, come l’autore spiega nell’introduzione, per il suo andamento corale e rapsodico a noi Impalcature fa pensare a un perpetuo, compiuto e al tempo stesso irrisolto flusso. Limpidezza e profondità, la scrittura di Mario Benedetti è come l’acqua chiara di un mare calmo che ti rapisce lo sguardo con la sua ipnotica e dolce vitalità, quasi impercettibile ma incessante e ricca di movimenti e forme.

Impalcature è una continua sorpresa. Oltre alle pagine narrative, ci sono passaggi saggistici come un reportage su Montevideo o l’apocalittica, lucida e profetica analisi geopolitica I paesi non muoiono mai. A morire è la gente, lettere dalla Spagna della figlia e della moglie da cui Javier è separato, poesie. Che siano realistici o metaforici, discontinui e incompleti, in ogni capitolo c’è comunque l’incanto sfibrato e malinconico eppure fiducioso con cui Javier e i suoi amici cercano infine se stessi fra utopie giovanili e sconfitte della vecchiaia. Come tanti Ulisse finalmente ad Itaca.

Rocio non è moglie e non è Penelope, ma come lei è rimasta, in tutti quegli anni è stata lì, in patria, a custodire la reggia della democrazia, ha sofferto il carcere e la tortura dei militari invasori e ha avuto paura «nei vecchi anni settanta, e quella paura non era per niente l’anticamera del coraggio. Era paura fottuta e basta». Rocio è una compagna ritrovata, un’amica, è la possibilità di un amore, se i corpi sapranno riconoscersi: «e lì, davvero, finalmente liberi dall’impaccio nudo dei vestiti, ritrovavano il dialogo dei corpi, il solo argomento di cui Javier disponesse per convincerla che ora sì, ora poteva sentirsi in salvo».

C’è Bribón che è fedele a Javier come Argo a Ulisse e ci sono anche i Proci in Impalcature. Sono i militari golpisti che hanno invaso la reggia della democrazia. A rappresentarli è il colonnello Saul Bejerano, che cerca Javier per avere un contatto e parlare con il suo amico e compagno Firmin, uno dei tanti prigionieri politici da lui avuti in cura e chissà perché rimastogli impresso nella memoria. Il colonnello cerca una conciliazione, come i Proci un matrimonio. Impossibile. La contrapposizione è frontale. Altri sono i fili da riannodare. Altre le vie per il cambiamento.

Impalcature è un’inesausta, rabdomantica esplorazione di tante di queste possibilità. Mario Benedetti è morto quasi novantenne nel 2009, la sua popolarità in Italia è solo agli inizi.

Mario Benedetti, Impalcature, Nottetempo, 2019