Quando il gioco si fa duro e gli umili cominciano a giocare, allora la partita narrativa diventa incandescente e tu che leggi non riesci più a stare quieto sugli spalti. Vorresti scendere in campo e fare la tua parte. Il giuramento di Claudio Fava fa venire proprio questa voglia. Già a pagina cinquanta. Lo giuriamo.

Il romanzo nasce da una storia vera, dolorosamente vera. Con decreto del 28 agosto 1931 il regime fascista impose a tutti i docenti universitari l’obbligo di un giuramento di fedeltà al duce. Giurarono in 1238, solo dodici si rifiutarono. Claudio Fava racconta la storia di uno di loro precisando in appendice: «Luoghi, amori, solitudini e passioni sono frutto della nostra fantasia. Il resto no», e quel resto è alla fine, nome, cognome e tutto quanto, insieme a una nota biografica anche degli altri docenti che seppero dire no.

Prima, però, c’è lui: il protagonista del romanzo. Anziano, professore di Medicina legale all’università di Catania, vedovo già da un po’, senza figli, è accudito da una governante ancora giovane e bella e a lui molto affezionata, anzi: silenziosamente innamorata. Il professore è persona timida, modesta, senza segreti né furori. È uno che ha fatto della noia una regola o «qualità della vita» perché, pensa, «fa compagnia ai pensieri, disciplina i gesti, evita sorprese. Insomma, serve». Ogni giorno, a colazione mangia un quarto di mela, assolutamente non di più («Professore, ma voi mangiate come i poveri» dice Tilde), poi prende la pillola rossa per la gastrite e dopo quella blu per l’aerofagia, sempre in quell’ordine. Una rapida occhiata ai materiali nella cartella, quindi all’università, mai in ritardo.

  • Il professore è uno di quegli anonimi ma luminosi e impagabili eroi borghesi che identificano se stessi nel proprio ruolo sociale e perciò s’impegnano nel lavoro con passione e dedizione totale, oltre che dignità e onore. Insegna ai suoi allievi come fare autopsie ed aprire i cadaveri «per imparare la vita dalla morte». Insegna a «spingere lo sguardo dentro le cose perché la morte sta nei dettagli, come la vita». Insegna «a trovare l’inganno, non le conferme. L’incertezza, non la perfezione». Quando è in cattedra è un altro: ha talento e valori saldi e chiari. Ha l’autorevolezza d’un maestro. È sempre padrone della scena, rigoroso e inflessibile, sagace, sardonico. Studenti e colleghi lo riveriscono e lo temono. Morale e scienza in lui sono tutt’uno. La libertà d’essere fedele a se stesso unisce cittadino e professore. Né l’uno e né l’altro, quindi, possono sottostare alla violenza indecente di quella lettera del ministero che chiede un giuramento di fedeltà al regime. È una scelta di coscienza, non politica. Peraltro discussa con Tilde, che proprio nei difficili giorni di quella decisione prorompe con il proprio sentimento.

Il giuramento ha la bellezza struggente di quei momenti esaltanti e drammatici in cui la vita può diventare altro da «quello che c’è, quello che hai». Cosa diventerà, quindi, la vita per Tilde e il professore dopo quella difficile scelta? La lingua del romanzo è semplice e diretta, impreziosita da suggestivi inserimenti lessicali dal dialetto siciliano come «camurrie, taliava, mischini, babbiavano» o gli ancor più suggestivi «incantesimarsi di paura, furriava nel cervello, la vanniava». Claudio Fava racconta anche le situazioni più forti di sfruttamento inenarrabile e rivolta bruta con una discrezione antiretorica all’altezza dell’antica e nobile tradizione verista della sua terra, pensiamo a Verga di Rosso Malpelo o di Libertà.

 

Claudio Fava, Il giuramento, add editore, 2020