Facciamo come in quei quiz in cui ci sono dei punti da unire e alla fine viene fuori una figura di senso compiuto. Proviamo. La violenza del mio amore, terzo romanzo del siciliano Dario Levantino, è ancora la storia di Rosario e Anna, già protagonisti sia del suo fortunato esordio (Di niente e di nessuno) sia del successivo Cuorebomba. Dunque, punto primo, dei personaggi forti che si sono imposti all’autore, il quale all’inizio di questo cammino narrativo certamente non aveva programmato quella che infine sarà una quadrilogia: La violenza del mio amore, infatti, lascia in sospeso dei conti che chiedono a viva voce d’essere saldati. E Dario Levantino senz’altro lo farà.

Siamo, infatti, ad uno snodo cruciale. Rosario ed Anna hanno avuto una figlia. L’hanno chiamata Maria. Sono giovanissimi, all’ultimo anno delle superiori. Hanno alle spalle un passato di sofferenza e povertà. Rosario ha perso da poco la madre, vittima di una crisi depressiva dopo la scoperta dei segreti, l’abbandono e l’arresto del marito. Rosario vive nel mito del nonno, da cui ha ereditato la passione per il calcio. È appena uscito da una dura esperienza in una casa-famiglia. All’annuncio della maternità, Anna è stata disconosciuta e abbandonata dalla famiglia, emigrata in Australia.

  • Dunque, Rosario e Anna devono crescere una figlia, peraltro gravemente malata, da soli, senza mezzi. Hanno solo il rifugio di una barca rovesciata sulla spiaggia di Brancaccio. E un cane, Jonathan, che è come un figlio. L’unico che li protegge e sostiene è padre Giovanni, ardimentoso parroco di Brancaccio, tanto simile a don Pino Puglisi. Punto secondo: mentre a Roma si discute della giustezza o meno di certe misure di politica sociale, raccontando la realtà della miseria in tutta la sua devastante crudezza, con cuore schietto (anzi, cuorebomba) Dario Levantino lancia un grido d’allarme che ha la stessa, dirompente forza di denuncia di certi classici europei dell’Ottocento, di cui non facciamo i nomi per pudore.
  • Punto terzo: c’è una letteratura delle sfumature e delle ombre, che rifugge da giudizi e condanne e fruga la perenne contraddittorietà dell’animo umano. Talvolta semplicemente la rimesta. La violenza del mio amore è, invece, un romanzo dalle partizioni nette e chiare. Dubbi non ne lascia. Da una parte gli umili, gli oppressi, le vittime. Dall’altra: ignavi, gretti e mafiosi. Da una parte l’amore e la giustizia. Dall’altra il sopruso e la violenza. Lo scontro è a tutto campo: morale e di classe. È in ogni ambito della vita sociale. A cominciare dalla scuola.

Rosario frequenta il liceo classico. Ama l’epica, la letteratura, le materie umanistiche. Cerca nella cultura riscatto sociale, come era desiderio della madre. Da grande vuole insegnare. Anche Anna studia. Vogliono arrivare insieme alla licenza. Vanno a scuola un giorno per ciascuno, l’altro cura la bambina. Chi dovrebbe aiutarli, docenti e dirigenti, li considera, invece, un corpo estraneo. S’appella ipocritamente alla meritocrazia. In realtà vuole solo obbedienza, come Totò Mandalà il boss mafioso di Brancaccio. È il latinorum di don Abbondio. Punto quarto. Un certo modo di intendere e praticare la cultura è la prosecuzione del crimine con altri mezzi.

La violenza del mio amore è anche un percorso di lettura che rivisita i classici scolastici e le letture di un diciottenne con gli occhi e la passione di chi in essi cerca quella pienezza di vita che al momento gli è negata ma alla quale sa di avere diritto e per la quale è pronto a battersi fino all’estremo sacrificio.  Quanto costerà a Rosario questo sacrificio? Che prezzo dovrà pagare per la salvezza dei propri cari? Il romanzo si chiude qui. Nel prossimo sapremo.

Punto quinto. Rosario, Anna, Maria, Jonathan, la barca, padre Giovanni e lo sgabuzzino nella parrocchia sono un mondo d’amore. Ora per noi la figura è completa, il disegno è chiaro: La violenza del mio amore è un grande romanzo, di quelli che restano nel tempo.

 

Dario Levantino, La violenza del mio amore, Fazi, 2021