Umberto Eco, 1963: «L’avvento di fatti nuovi nel campo della tecnica, tali da mutare l’assetto della società e la posizione dell’uomo nel mondo, implica una rivoluzione filosofica, un’altra visione dell’uomo e dei valori. Se c’è una lezione del marxismo, è proprio questa».
Sono parole come luce di stella: arrivano da lontano, ci vuole del tempo per vederle, poi però infiammano.

  • Grazie, quindi, a Claudio Crapis e Giandomenico Crapis, autorevoli studiosi di letteratura e cultura di massa, che con mirabile intuizione hanno riproposto in volume uno storico intervento di Umberto Eco del 1963 sulla rivista del PCI Rinascita contestualizzandolo, peraltro, rigorosamente sia nel dibattito politico-culturale dell’epoca sia nel percorso di formazione dell’allora trentunenne Eco e arricchendolo di altri cinque brillanti articoli coevi dello stesso autore sul Corriere della sera.
  • Non si può eludere il nuovo: ma come affrontarlo? L’intervento di Eco codifica una metodologia di studio alla maniera di quella sperimentale della rivoluzione galileiana. Per di più, nei suoi punti fondamentali essa vale anche per la politica e per tutti noi come bussola nella quotidianità. I grandi volano alto ma parlano a tutti, basta alzare gli occhi al cielo.

Punto primo: osservare, descrivere, analizzare. In dosi massicce, perché «la ricerca deve essere un fatto collettivo, non si può limitare a brillanti exploit individuali». Quanto più un fenomeno è nuovo, tanto maggiore deve essere l’attenzione. All’inizio degli anni Sessanta in ambito culturale nel nostro Paese il nuovo aveva due volti: le pratiche sperimentali delle neoavanguardie che si andavano costituendo in gruppo contro l’ortodossia artistica veterocomunista e i successi trasversali e di massa di prodotti di facile consumo. Da una parte Arbasino, Balestrini, Guglielmi e il Gruppo ’63, di cui Eco è stato fra i maggiori esponenti. Dall’altra Mina e Rita Pavone, ma anche Beethoven fischiettato sotto la doccia: insomma, la cultura di massa con tutto il suo corredo di percorsi agevolati e generi. Eco reclama la stessa apertura senza pregiudizi nei confronti di entrambe queste realtà, della seconda peraltro è stato il più insigne studioso e certi suoi meccanismi li ha anche usati impastandoli con le proprie letture alte nei romanzi di successo, a partire da Il nome della rosa.

Nella fase di ricerca serve il concorso di tutti perché il punto di vista di chi guarda è condizionato dalla sua soggettività, che è il precipitato di innumerevoli e perlopiù inconsapevoli fattori, «è un rischio inevitabile, perciò ritengo che certe operazioni possano avere successo solo attraverso un impegno collettivo e il contributo da varie direzioni e a vari livelli».

La quantità fa la qualità. A noi piace lucrare da ogni lettura qualche spicciolo di insegnamento, quindi ora siamo ancor più determinati a cercare e ascoltare il massimo di opinioni nella fase dinamica di nostra formulazione di un giudizio.

Osservare, descrivere, analizzare non significa accettare o rifugiarsi in un pilatesco limbo ma essere consapevoli che in un diverso contesto sociale i valori mutano. «C’è una sorta di insopprimibile “etnocentrismo” che porta a ritenere valori umani assoluti valori generati da situazioni storiche precise e circoscritte nel tempo… Tipico il feticcio della “razionalità”… Sulla medesima linea “il vizio umanistico”… L’immagine dell’uomo, di cui si lamenta la crisi ad opera delle arti e del pensiero, è quella fornitaci dall’umanesimo rinascimentale… un’immagine chiaramente classista, che implica un concetto di cultura come privilegio di classe (quindi cultura meditativa, nutrita di otia, basata sul consumo di emozioni particolarmente raffinate… messa immediatamente in crisi non appena i suoi valori tipici diventino consumabili dalle masse e subiscano inevitabili deterioramenti, e così via)».

Scusate se saltiamo di palo in frasca ma ci chiediamo: quando Josep Borrell, Alto rappresentate dell’Unione per gli affari esteri, dice che «l’Europa è un giardino e il resto del mondo una giungla» non sta banalmente, scioccamente e pericolosamente reiterando l’insopprimibile vizio etnocentrico?

Osservare, descrivere, analizzare significa farsi domande. Una canzone di Mina per delle masse enormi soddisfa evidentemente delle esigenze. Si chiede Umberto Eco: quali sono queste esigenze? Le soddisfa o sembra soddisfarle? Esisterebbe un modo diverso per soddisfarle? Se la Quinta di Beethoven viene fischiettata in bagno è perché non è più fruita da una élite ristretta in momenti privilegiati ma da masse molto più grandi in diverse condizioni di ascolto, quindi bisogna chiedersi «quale tipo di valore costituisca questo nuovo Beethoven in relazione al nuovo gruppo di fruitori nella nuova situazione sociale».

I valori cambiano. Modelli e forme restano. La cultura ha memoria d’elefante e percorsi carsici dentro la propria storia. Obbedisce prima di tutto a se stessa: «c’è disparità di sviluppo tra base e sovrastruttura… tutta una rete di influenze a livello delle forme prescindono in gran parte dal riferimento ai problemi economici e sociali di un dato periodo… la dialettica delle forme non ha una rispondenza lineare rispetto allo sviluppo degli eventi storici… segue in una certa misura leggi proprie e riverbera sulla (ed è riverberata dalla) dialettica dei fenomeni di base solo attraverso un complesso di mediazioni talora molto intricato».

Spettacolare l’acrobazia di Eco con l’arte trobadorica che – ci dice – nasce come manifestazione di ossequio alla dama in ambito aristocratico e cortese ed è figurazione simbolica della soggezione al potere del signore ma già in epoca medievale dà il via a una nuova concezione dell’amore e a una moderna dialettica dei sentimenti anticipando l’ethos di una diversa società e fornendo una scala di valori sentimentali al lontanissimo ethos della società borghese.

Senza andare lontano, quella con il nuovo è una partita cominciata con il Romanticismo agli albori della modernità e per la quale non c’è triplice fischio di chiusura ma un’unica certezza: fine gara mai.

Da una parte il neocapitalismo, di cui «uno degli elementi di vitalità consiste nel fagocitare, nel “comperare” ogni fenomeno nuovo, fosse pure insidioso, e di ridurlo a eresia virtuale del sistema». Dall’altra quell’inesausto esercizio di militanza e responsabilità critica che noi chiamiamo trazione anteriore, e cioè la pervicace volontà di affrontare il nuovo a viso aperto: «Al di qua dunque dell’esaltazione irresponsabile e della deprecazione moralistico-reazionaria, esiste l’indagine sul fenomeno nuovo per commisurarlo ad altre realtà e scoprirne la direzione, individuarvi un senso (che non è il “Senso-del-fenomeno-in-sé”, ma il senso che esso acquista per la storia umana)». Ogni interpretazione di un fenomeno nuovo lascia su di esso un’impronta epigenetica che ne determina corso e valore. Nella modulazione del nuovo nessuno è assolto, siamo tutti coinvolti.

 

Claudio Crapis, Giandomenico Crapis, Umberto Eco e la politica culturale della Sinistra, La nave di Teseo, 2022