Il punto di partenza è Vita e destino. Quello d’arrivo chissà, cioè: lo abbiamo chiaro, però… anche Colombo aveva chiara la meta. Inoltre, Vita e destino è un mondo.
Nella sua ricchezza e vastità ti puoi perdere come in un oceano mare e senz’altro il naufragar non sarebbe male. Una tentazione. Dunque, massima vigilanza: il nostro riferimento al romanzo di Grossman sarà circoscritto e mirato.

  • Vita e destino, scritto nel 1959, pubblicato per la prima volta in Svizzera nel 1980 ed edito in Italia da Jaca Book nel 1984, da subito e da tutti giudicato un capolavoro (George Steiner: «Libri come Vita e destino eclissano quasi tutti i romanzi che oggi, in Occidente, vengono presi sul serio»), è in realtà la seconda parte di Stalingrado, pubblicato in Russia nel 1952, poi inabissato dalla censura, in libreria in Italia grazie ad Adelphi solo dal 4 aprile 2022.
  • I due romanzi sono un capolavoro per la loro monumentalità storica; sono la verità profonda (quella umana dei sentimenti) di una pagina fondamentale del nostro passato prossimo: la battaglia che dal 17 luglio del 1942 al febbraio dell’anno successivo oppose l’esercito tedesco a quello sovietico e rovesciò le sorti della guerra avviando la fine della potenza nazista. Stalingrado e Vita e destino stanno all’invasione nazista come Guerra e pace a quella napoleonica e come il romanzo di Tolstoj sono un punto attraverso cui passano infinite rette.

Stalingrado finisce là dove inizia Vita e destino (settembre 1942), che con perfetta circolarità, si conclude là dove comincia Stalingrado. I due romanzi condividono i personaggi principali. A cominciare dai componenti della famiglia di Aleksandra Šapošnikova, dal cui nucleo familiare, con una naturalezza tale che quasi impedisce a chi legge di fare interruzioni, come a cascata da un albero genealogico fluisce la possente coralità dei due romanzi. La gran parte dei protagonisti, dunque, ci viene presentata da Grossman in una scena iniziale di Stalingrado a casa Šapošnikova.

L’anziana signora ha invitato a una frugale cena parenti stretti e qualche amico per salutare il ritorno della nipote Ženja e la visita dell’altro nipote Tolja diretto al fronte e di passaggio in città. Nel crogiolo affettivo di casa Šapošnikova riluce la forza morale del popolo russo, magistralmente esemplificata dal settantaseienne professor Mostovskoj, fervente marxista: «una di quelle persone di cui si dice “fanno razza a sé”, una vitalità inesauribile… E questo malgrado ciò che aveva passato: i lavori forzati sotto lo zar, il confino, le notti insonni a sgobbare, le privazioni, l’odio dei nemici, e poi delusioni, amarezze, gioie e dolori».

Mostovskoj, prima della guerra, viveva da solo a Leningrado, la moglie era morta già da un po’, nel 1942 un aereo lo aveva portato via dalla città assediata. Negli ultimi anni aveva insegnato economia, filosofia e politica e aveva scritto alcune voci per l’enciclopedia e il dizionario filosofico (Eraclito, Fichte e Schopenauer), la guerra lo aveva colto al lavoro su Kant.

A conclusione del racconto della serata a casa di Aleksandra Šapošnikova, in due pagine di introspezione dei pensieri di Mostovskoj, Grossman dipinge un quadro della velocità esponenziale dell’impeto trasformatore della rivoluzione russa di rara lucidità e commovente bellezza. La conclusione è pura poesia: «La Russia aveva raggiunto un livello di alfabetizzazione senza precedenti, paragonabile solo a un’esplosione solare di potenza astronomica; se la luce dell’alfabetizzazione che si era accesa in Russia avesse potuto essere tradotta in onde elettromagnetiche, nel 1917 gli astronomi delle altre galassie avrebbero registrato la nascita di una nuova stella che continuava tenacemente a dare luce».

Un balzo in avanti, Vita e destino. Nel bel mezzo del romanzo ritroviamo Mostovskoj. In compagnia del maggiore Eršov, suo compagno di prigionia. Siamo in un lager tedesco. I prigionieri sono tanti, non solo russi, anche polacchi, francesi, iugoslavi, cechi… Il trentatreenne maggiore Eršov è assolutamente determinato a mettere in piedi un’organizzazione clandestina di detenuti politici, reclutando prima combattenti russi, poi anche quelli di altra nazionalità: «Il cervello del maggiore Eršov lavorava giorno e notte in continua, perenne, tensione». L’obiettivo, una sorta di Komintern dei lager.

Eršov combatte per la propria patria con incrollabile fermezza, lucidità e sagacia strategica, eppure la violenza e la crudeltà del regime, la sua ottusa, puzzosa e fraudolenta follia collettivista gli ha ammazzato la madre, due sorelle e, infine, il padre, deportati nel ’30 in quanto kulaki in un villaggio a nord degli Urali e ridotti in condizioni di vita peggiori di quelle che lui poi soffrirà nel lager tedesco.

Mentre è ancora all’Accademia, Eršov in licenza va a trovare i familiari. L’incontro con il padre, l’unico superstite della famiglia, ma ancora per poco, è di uno strazio indicibile. Il vecchio, con il figlio sulla tomba dei propri cari: «Perdonatemi, morti e viventi, per non aver saputo proteggere chi amavo». E Grossman: «Così parla la gente semplice di un destino possente e inesorabile».

Eršov, dunque, continua a combattere per la patria socialista benché sappia fin troppo bene che sono indiscutibilmente vere le atrocità di cui essa è accusata: «Ma sapeva anche che in bocca ai tedeschi e a Vlasov (ndr: generale russo, eroe di guerra, catturato dai nazisti si offrì di combattere con loro contro Stalin) quella verità diventava menzogna». Il suo pensiero dominante è il bene superiore della salvezza collettiva dall’invasore.

Ma che cos’è questo obbedire al Male, crederlo migliore di un Male peggiore e battersi per esso con tutto se stesso anche quando quello ti ha dilaniato la carne? È grandezza d’animo, realismo, scelta obbligata o l’ultimo stadio della disumanizzazione? È il definitivo annichilimento dell’essere ad opera del totalitarismo? È la vecchia storia malintesa del fine che giustifica i mezzi? È stolida perversione masochistica, folle presunzione ideologica o cosa?

Eršov si riconosce in Mostovskoj. Valuta i vari prigionieri per decidere chi coinvolgere nel suo progetto e conclude: «Mostovskoj. Lui sì. È istruito, e non è cosa da poco, e ha una volontà di ferro…». Grossman: «La conclusione fu la seguente: non c’erano persone perfette. Bisognava misurare forze e debolezze di ciascuno, il che non era poi difficile. Ma per decidere se qualcuno andava bene o meno, bisognava guardare ai principi. E i principi non si misurano. I principi si intuiscono, si sentono. Per questo Mostovskoj era stato il primo».

 

parte prima – continua

 

Vasilij Grossman, Stalingrado, Adelphi, 2022

Vasilij Grossman, Vita e destino, Adelphi, 2008