È sempre questa fame di realtà che spinge il regista alla novità rivoluzionaria di scegliere i propri attori “dalla strada”
come nel caso dello stesso Ettore Garofalo (protagonista di Mamma Roma) oltre che dei più noti Franco Citti (Accattone) e Ninetto Davoli (Uccellacci uccellini, 1965): «…amo fare film con attori non professionisti, cioè con facce, personaggi, caratteri che sono nella realtà… Non scelgo mai un attore per la sua bravura di attore, cioè non lo scelgo mai perché finga di essere qualcos’altro da quello che egli è, ma lo scelgo proprio per quello che egli è».
Con Anna Magnani, infatti, i rapporti sul set di Mamma Roma furono piuttosto conflittuali perché – dichiarò Pasolini – un attore professionista porta al personaggio una propria coscienza che si aggiunge a quella del regista: «è un elemento spurio rispetto all’integrità stilistica dell’intera opera d’arte». Pasolini non girava per mettere in scena qualcosa; dei propri film voleva essere autore, come dei romanzi e delle poesie. Non comproprietario.
Con Totò (Uccellacci uccellini, La terra vista dalla luna, Che cosa sono le nuvole?) i rapporti, invece, andarono sempre benissimo perché Pasolini voleva che fosse quello che era: «un personaggio estremamente umano… con quel fondo napoletano e bonario, immediatamente comprensibile».
- L’attore professionista parla una lingua che non esiste nella realtà: l’italiano medio delle scuole di recitazione. Pasolini, invece, sia a cinema che in letteratura, lavorava sotto il segno della «contaminazione».
- In ogni pagina dei suoi romanzi – egli dice – ci sono almeno tre piani (il discorso diretto in dialetto, il monologo interiore dei personaggi e la parte didascalica dell’autore) che, convivendo, necessariamente «si intersecano e confondono»… così come nella sua vita, sia storicamente – da una raffinatissima educazione borghese alla scoperta del mondo popolare – sia quotidianamente, con i giorni a lavorare «come un monaco / e la notte in giro, come un gattaccio in cerca d’amore…».
Ma la realtà è sempre più ostile e quelle notti randagie un pericolo, a tal punto che il poeta ben presto si vede «massacrato col sereno coraggio / d’uno scienziato». E dice «…Sembro / provare odio, e invece scrivo / dei versi pieni di puntuale amore». Un amore ormai impossibile. E inevitabilmente tragico.
A un certo punto, dunque, la realtà tradisce Pasolini, che ne prende atto e cambia il proprio modo di rappresentarla. La grandezza di Pasolini non è solo nella sterminata varietà dei linguaggi utilizzati ma anche nell’articolazione di quello cinematografico. Quindici anni soltanto di regia ma in un tempo così limitato una quantità impressionante di realizzazioni e una pluralità di approcci.
Dopo La ricotta, a partire da Il Vangelo secondo Matteo e Uccellacci uccellini e poi Teorema e Porcile… cioè, insomma, dalla seconda metà degli anni Sessanta, Pasolini sterza completamente abbandonando quella dimensione – da lui stesso definita – «epico-lirico, nazional popolare, gramsciana». Che è successo?
Accade tutto «in una notte da innominato in un alberghetto di Viterbo». Sono in corso le riprese del Vangelo… La mattina dopo tocca al battesimo nel Giordano (il torrentello Chia «circondato da burrati ariosteschi», dove poi l’autore prese l’abitudine di ritirarsi in una torre per lunghe e intense sessioni di scrittura).
Prima di cominciare il film in un’intervista a Paese Sera Pasolini aveva dichiarato che lo avrebbe realizzato come Accattone: lui marxista e ateo ma simpatizzante cattolico avrebbe, cioè, guardato Gesù con gli occhi “innocenti” di un uomo del popolo riproponendo così quella «figliale semplicità» o «sacralità tecnica» con la quale nella sua prima opera aveva scardinato «dalla loro usuale semanticità la materia delle borgate romane».
Girò per prima «l’intera scena di Getsemani e dell’arresto» e subito si rese conto del disastro: «Un Cristo frontale, ripreso col 50 o il 75, accompagnato da brevi e intense panoramiche, diventava pura enfasi: una riproduzione». Un errore irrimediabile anche in sede di montaggio: «quando, ora, quella scena passa sullo schermo – per quanto corretta e accomodata in sede di montaggio – me ne vergogno selvaggiamente».
Gesù non è «un magnaccia del Pigneto»: è già «un’architettura romanica o un personaggio masaccesco», ribadirlo è una ridondanza, è kitsch. Noi, però, dobbiamo leggere dentro questo “disagio del ridicolo” che Pasolini avverte come un pugno nello stomaco subito dopo la falsa partenza della scena di Getsemani.
Quelle immagini sono inaccettabili perché la purezza di “un Cristo frontale” non corrisponde alla sensibilità popolare del tempo che ha abbassato il proprio sguardo dalla «pietà» all’«edoné».
Lo stupore aurorale del marxista che afferma con Gesù l’universalità dell’amore è ingenuo e naïf. È vero, perché corrisponde al sentimento dell’autore; ma non è reale perché non è rappresentativo di niente nella nuova era della religione dei consumi.
La contaminazione non ha funzionato. La macchina da presa (con l’oggettività estetica delle immagini) restituisce all’autore la consapevolezza temuta ma imprevista di un divario incolmabile fra sé e il popolo: mondi paralleli che non possono più convergere ma solo collidere.
La mutazione antropologica degli italiani è ormai compiuta: «essi sono divenuti in pochi anni (specie nel centro-sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale».
Senza più punti di riferimento, la realtà è ora un caos. Ma la crisi è fertile. L’autore, infatti, come canna al vento, asseconda la nuova idea di complessità decidendo di riprendere la scena del battesimo dall’alto. Chiede alla produzione un elicottero. Non è possibile averlo e, quindi, si arrampica per i “burrati ariosteschi” del Chia con «l’eroico Delli Colli (ndr: suo storico direttore della fotografia) e l’Arriflex munita come un becco di pancinor». L’obiettivo ora è il 300 e poi il suo contrario, il 25.
«Ogni frontalità è così sconvolta, ogni ordine, ogni simmetria: irrompevano il magmatico, il casuale, l’asimmetrico: le facce non potevano più essere viste di fronte e al centro dell’inquadratura, ma si presentavano così come capitava, in tutti gli scorci possibili e sempre eccentriche nel fotogramma».
L’effetto è di «evocazione», non di «rappresentazione». È l’addio a un mondo antico, e amico. Per raccontare il presente ora, infatti, occorrono «film problematici, formalmente più difficili, per “élite” e in qualche modo più provocatori». Non c’è più un popolo cui parlare ma una massa abbrutita e indifferenziata da scuotere e contrastare. Con Uccellacci uccellini comincia il nuovo corso. La sperimentazione cinematografica troverà, infine, compimento nel progetto narrativo di Petrolio.
Viene in mente Verga con le parole che – salendo nella scala gerarchica – dopo Mastro don Gesualdo “non quagliavano” più. Pasolini deve aver vissuto la stessa crisi di linguaggio. Dopo Uccellacci uccellini in urto con la realtà ha, quindi, scalato con i film i vertici della società fino a ritrovare un tale vigore narrativo da progettare con Petrolio un’opera totale da scagliare contro il Palazzo come un attacco frontale.
Poi è successo quel che (ancora non) sappiamo. La realtà l’aveva tradito, era diventata un brutto film ma lui caparbiamente di giorno la combatteva e di notte continuava a girare «come un gattaccio in cerca d’amore». Sapeva a cosa andava incontro. Un vero artista conosce il proprio il proprio destino come un profumo, lo conosce con la chiarezza ambigua di un oracolo e quindi – al tempo stesso – lo precorre e lo insegue: quale che esso sia, perché sa che nel suo compimento è la propria ragion d’essere. I grandi non si negano alla vita, ma lasciano che essa gli esploda dentro.
La verità della morte di Pasolini – si legge nella perizia di parte civile in appendice al libro Pasolini, un delitto italiano di Marco Tullio Giordana – è nella camicia zuppa di sangue ritrovata vicino a dove fu fermata l’auto ed a 70 metri dal corpo. Prima ancora dei tre Dna rilevati sul luogo del delitto (tre, non uno) che la nuova istanza di riapertura delle indagini chiede finalmente di identificare, l’indumento in quelle condizioni è la prova che tra il poeta e chi lo uccise, quella notte del 2 novembre al lido di Ostia, non ci fu colluttazione ma massacro. Lo scontro tra le due parti non fu mai uno a uno ma sempre impari, tanto è vero che subito le ferite di Pasolini «sanguinarono abbondantemente», già nei pressi della Alfa 2000 GT dove cominciò l’aggressione.
Se anche così non fosse, quella camicia insanguinata racchiude, comunque, l’ultimo gesto poetico di Pasolini. Egli, infatti, in fin di vita, se la tolse, slacciandosi i bottoni uno a uno per tamponare le ferite in modo da «rendere il suo viso sopportabile agli occhi della madre che lo stava attendendo nella loro casa all’Eur». L’ipotesi è di Nico Naldini, suo cugino.
Forse, però, Pasolini nei pochi attimi di «calma tristissima» prima della morte ha pensato anche a noi e ha cercato, quindi, di restituire dignità al corpo martoriato per evitare che quello scempio indebolisse la sua opera perché il sangue, ancor più della fretta, «l’onestade ad ogn’atto dismaga». Ripulendo in qualche modo le ferite del suo corpo, mentre come “un profeta disarmato ruinava”, Pasolini ha corretto, almeno in parte, il finale di quel brutto film che la realtà traditrice stava girando contro di lui.
E con un semplice e sovrumano gesto d’amore il nostro «’ntento rallargò».
parte seconda – fine
In apertura: Pietro Capogrosso, Pasolini, 2005, olio su carta, 50×35, collezione privata Foggia