Se nel carattere è il destino di una persona, il senso di un romanzo è nella forma. A cominciare dalla punteggiatura, che profila la sintassi e della personalità di un testo è il tracciato, tipo quello che viene fuori da un elettrocardiogramma.
William Faulkner, Non si fruga nella polvere, straripante, incontenibile. Periodi come fiumi in piena che travolgono d’impeto ogni convenzione. Due punti e subito a seguire di nuovo due punti, parentesi nelle parentesi, virgole saltate di slancio, trattini a manciate, similitudini riacciuffate e saldate dopo dieci righe…

Claudia Durastanti cita un post che girava tempo fa su internet nel quale erano messe a confronto due pagine cui erano state tolte tutte le parole tranne la punteggiatura. Una di Cormac McCarthy, l’altra di William Faulkner. Quella del primo «una prateria svuotata con sporadiche apparizioni nere». La seconda «un guazzabuglio di interpunzioni che si affastellavano come cavalli indomiti e selvaggi».

  • Nulla accade per caso nel mondo assolutamente arbitrario del romanzo. La punteggiatura di Faulkner è guerriglia, lotta di liberazione. I segni vari e multipli sono le torsioni di un corpo che cerca di divincolarsi da una morsa. Quella di una realtà ottusa e tronfia, pervicace nella propria presunzione di inamovibilità. Stati Uniti del sud. Contea di Yoknapatawpha, mitica e immaginaria, luogo d’elezione dei grandi romanzi di Faulkner. Quarto distretto. Pieno Novecento, la modernità incalzante e bagliori di una nuova civiltà si scontrano con l’antico vizio identitario del razzismo, sullo sfondo le ombre lunghe della Guerra Civile.

Lucas Beauchamp, nero, è accusato di aver ucciso un bianco. Non ha scampo. Sarà giustiziato. Subito. Non serve andare in giudizio: «… e adesso i bianchi lo tireranno fuori e gli daranno fuoco, tutto regolare e in ordine e loro si comportano esattamente come è convinto che Lucas vorrebbe facessero: da bianchi; osservando implicitamente le regole: il negro che si comporta da negro e i bianchi da bianchi e senza rancore da entrambe le parti, una volta passato il furore». La banalità del male: contro di essa il fiume in piena del flusso di coscienza della narrazione con la gragnuola delle interpunzioni. Nella forma.

Nei fatti del romanzo, la coraggiosa e incosciente semplicità del bene di due sedicenni, uno bianco e uno nero, Chick e Aleck, e una vecchia zitella di settanta, forse un po’ tocca. Convinti che Lucas sia innocente, senza troppo esitare i tre agiscono di conseguenza: «Se hai qualcosa di fuori dal comune che va fatto e non può aspettare, non perdere tempo con gli uomini; loro si attengono… alle regole e ai casi. Affidalo alle donne e ai bambini; loro si attengono alle circostanze». E all’istinto. Chick, per esempio, il racconto in terza persona è in gran parte dal suo punto di vista, sa che Lucas è innocente perché questi tempo prima aveva avuto nei suoi confronti un atto di gentilezza, da lui vergognosamente malinteso.

Non si fruga nella polvere è romanzo di inesauribile ricchezza e per ciò stesso difficile. È un giallo, è una storia di formazione ma racconta una terra, un popolo, uno scontro di civiltà e, soprattutto, chiede al lettore di lasciarsi rapire dal continuo incanto delle sue ampie ed ardue digressioni, di grande densità riflessiva e di altrettanto grande libertà poetica, come ardite analogie. Il bandolo della trama aiuta a tenere il passo ma non è sufficiente a motivare la lettura: la sostanza artistica è altrove. È nella pervasiva umanità di tutto il libro, che ha il suo cuore in questa consapevolezza e volontà di riscatto: «Sono qualcosa di peggio. Sono solo un uomo».

Non si fruga nella polvere, traduzione di Roberto Serrai, è un romanzo del 1948, uno degli ultimi di Faulkner, che l’anno successivo avrebbe vinto il Nobel. Finora era disponibile solo l’edizione del 1951 con la traduzione di Fernanda Pivano. Adesso Adelphi sta ripubblicando tutte le opere di Faulkner.

 

Non si fruga nella polvere, pagg. 114 – 116

 

Dopodiché ancora una volta lo zio parlò in completa sintonia con Chick e di nuovo senza sorpresa vide che il suo pensiero non veniva interrotto ma semplicemente passava da una sella all’altra: «… solo noi della Virginia negli Stati Uniti siamo un popolo omogeneo… solo dall’omogeneità viene qualcosa di un popolo o per un popolo di valore durevole e permanente – la letteratura, l’arte, la scienza, quel minimo di governo e polizia che è il significato della libertà, e forse prezioso più di tutto un carattere nazionale che in una crisi vale pur qualcosa… per questo dobbiamo resistere al Nord… la vergogna ci sarà ancora naturalmente ma del resto l’intera cronaca dell’immortalità umana sta nella sofferenza che ha patito, la lotta verso le stelle nelle tappe della sua espiazione. Un giorno Luca Beauchamp potrà sparare alle spalle a un bianco con la stessa impunità con cui durante un linciaggio impicca o dà fuoco un bianco; col tempo voterà ogni dove e ogni quando può farlo un bianco e manderà i figli alle stesse scuole dove vanno i figli dei bianchi e si recherà dovunque si recano i bianchi e come fanno i bianchi. Non succederà martedì prossimo. Eppure la gente del Nord crede che si possa imporre entro lunedì prossimo votando e ratificando semplicemente un paragrafo a stampa… Noi – lui e noi – dovremmo confederarci: passargli il resto dei privilegi economici e politici e culturali che gli toccano di diritto, in cambio della sua capacità di aspettare e resistere e sopravvivere. Allora prevarremmo; insieme domineremmo gli Stati Uniti; offriremmo un fronte comune non solo inattaccabile ma che non si lascerebbe minacciare nemmeno da una massa di persone che non hanno più niente in comune se non la frenetica brama di denaro e la paura atavica del crollo di un carattere nazionale che nascondono l’uno all’altro dietro una chiassosa falsa devozione a una bandiera».

 

William Faulkner, Non si fruga nella polvere, Adelphi, pagg. 234