Altamura, provincia di Federico II, è un cantiere. Trasuda laboriosità. Ovunque ti giri ne cogli i segni. Non solo palazzi in costruzione o impacchettati per ristrutturazione ma stradine sventrate con nelle viscere condutture nuove e tanto e tanto altro ancora. Una qualità dell’aria.
Ogni santo ha il suo forno (San Nicola, Santa Caterina), le monache i dolci (Santa Chiara), i frati il nocino (Padre Peppe). Il sabato anche tre matrimoni contemporaneamente in poche centinaia di metri. Indice di natalità 8,3% (la media nazionale è al di sotto del sette) e a giudicare da chi spinge i carrozzini sembrerebbe che l’età del primo parto sia decisamente inferiore ai circa 33 anni del dato italiano.
Coincidenze, indizi… infine la prova: è di un altamurano l’espressione un popolo di formiche, una delle più felici dell’identità pugliese. Parliamo di Tommaso Fiore, naturalmente, che con Un popolo di formiche nel 1952 vinse il premio Viareggio.
A lui la parola: «E dovunque muri e muretti, non dieci, non venti, ma più, molti di più, allineati sui fianchi di ogni rilievo, orizzontalmente, a distanza anche di pochi metri, per contenere il terreno, per raccoglierne e reggerne un po’ tra tanto calcare. Mi chiederai come ha fatto tanta gente a scavare ed allineare tanta pietra. Io penso che la cosa avrebbe spaventato un popolo di giganti. Questa è la Murgia più aspra e sassosa; […] non ci voleva meno che la laboriosità d’un popolo di formiche»… e formica è stato anche lui.
Tommaso Fiore è stato per tutta la vita un cantiere culturale sempre aperto.
Quest’anno è il cinquantenario della sua morte. Numerose ad Altamura le manifestazioni per ricordarlo. Fra queste un’interessantissima mostra dell’artista Claudio Vino che, scrive Daniele Maria Pegorari nel testo del catalogo, con «una forma postmodernista di ‘pittografia’, sia nel senso della presenza immediatamente referenziale dell’oggetto raffigurato, sia nel senso inconsueto di una contaminazione fra pittura e fotografia» associa ripetutamente Fiore al più giovane Pasolini.
Fra i materiali della mostra anche uno scambio epistolare fra i due in cui con tono riverente Pasolini nel ’54 chiede a Fiore informazioni per un’antologia di poesia popolare che stava curando, in particolare chiede chiarimenti sul termine «sbiannore» trovato nei versi di uno strambotto di Volturino: «Deceve: Ddie mèie, come vògghie fà, / E’ Die ce mannaze lu sbiannore». Nel corso della corrispondenza Fiore segnala a Pasolini «fra i nuovi poeti della regione… Giacomo Strizzi, di Alberone (ndr: così nel testo), nel Subappennino foggiano, che ha molto senso dell’arte, molto freno».
Su Tommaso Fiore, Daniele Maria Pegorari, professore di Letteratura moderna e contemporanea all’Università di Bari, nell’occasione dell’inaugurazione della mostra di Claudio Vino, ha tenuto un’interessante lectio magistralis. Abbiamo avuto modo di ascoltarlo. Tante le suggestioni. Inevitabile la voglia di approfondire. Lo abbiamo fatto leggendo Le utopie di Tommaso Fiore, Stilo editore, ultima pubblicazione dello stesso Pegorari, critico di grande acume e raffinatezza che spazia da Dante alla modernità, alla tradizione dialettale.
Utopia è la parola chiave del complessivo impegno di Tommaso Fiore: ne ha guidato il cammino, ispirato da maestri come Tommaso Campanella e Tommaso Moro.
Da giovanissimo Fiore partì volontario per la Prima guerra mondiale e per affrettare i tempi si arruolò come fante anziché ufficiale, pur essendo già laureato, perché – scrive Daniele Pegorari – «come per gli scrittori vicini alla rivista la Voce, la decisione di arruolarsi era un misto di avventurismo giovanile e, soprattutto, adesione a un processo di nation building: la partecipazione a un evento così macroscopicamente corale… appariva la risposta più adeguata al difetto di volontà e concretezza che sembrava segnare i ruoli intellettuali in quegli anni, e che già avevano generato una ricca letteratura sull’inettitudine, da Svevo a Gozzano, da Kafka a Musil».
Ascoltando e poi leggendo Daniele Pegorari, di Tommaso Fiore colpisce il baricentro culturale della postura politica: uomo di pensiero e d’azione, tutt’uno, come gli intellettuali a lui coevi e vicini, Salvemini, Gobetti, i fratelli Rosselli…
Quando le scelte sono dettate da oneste e forti ragioni ideali, è doloroso ma facile rendersi conto degli errori. La disfatta di Caporetto, la prigionia, le stragi di soldati e di civili… insomma: la verifica sul campo disilluse Tommaso Fiore, «soldato dell’Utopia», circa il «potere della guerra di dar corpo a un’identità nazionale e a una compiuta socialità».
Una diversa distribuzione della ricchezza, il federalismo, il riscatto dei contadini e del Mezzogiorno… l’utopia è strategia, Fiore non ci rinuncia e la persegue per altra via, mediando nell’impegno politico diretto l’anelito eroico con il realismo dei compromessi e pagando il gravoso dazio della prigione al proprio spirito di libertà. Eccolo allora sindaco del proprio paese, pacifista militante, irriducibile antifascista, tra i fondatori del Partito d’azione.
La caratura della persona è nella qualità delle sue parole. Per esempio quelle al Congresso dei Comitati di Liberazione Nazionale al Teatro Piccinni di Bari il 28 e il 29 gennaio 1944, ai cui lavori Fiore prese parte come delegato del Partito d’azione. Il suo tono è furente: chiama fascista il re; al governo insediato a Brindisi dice «larve semoventi», «sciocchi prigionieri del fascismo», «vuote ombre» funzionali a «un dominio clerico militare, reazionario e conformista», «più detestabile del fascismo per la sua ipocrisia».
Infine, lo slancio visionario: «Le nostre concezioni politiche sono quelle della tradizione italiana che nel Settecento si arricchì dell’ispirazione liberale inglese e nell’Ottocento di quella francese ed europea, in modo analogo a ciò che è avvenuto per la democrazia degli Stati Uniti. […] sarà spazzata via ogni bruttura dalle città, tolto dalla pratica lo spirito di minacce, in alto come in basso, ridotti i cittadini ad uomini civili, la vita pubblica a discussioni, a decisioni di esperte maggioranze, […] i generali a sottomissione al potere civile, il governo a rispetto della legge, gli uomini politici a senso di responsabilità, la scuola a palestre di libere intelligenze, i servizi pubblici al rispetto del pubblico».
Poi, naturalmente, ci sono le parole dei reportage degli anni Cinquanta e Sessanta – i ben noti Un popolo di formiche e Un cafone all’inferno – determinanti nella fondazione dell’identità pugliese e, quindi, meridionale. Determinanti tanto quanto quelle di Franco Cassano.
Scrive Pegorari: «l’eredità più viva di quelle parole risiede nel loro aspetto più strettamente letterario, in quella qualità della scrittura che fonda la geografia pugliese nell’immaginario nazionale… la Puglia di queste pagine è un paesaggio umano, una fascinosa e indistricabile fusione di natura e azione antropica».
Infine l’ultimo scatto, quello che più ci commuove, per ragioni umane, non politiche. Lasciamo la parola all’acutezza critica e psicologica di Pegorari: «Se nelle biografie di molti leader è dato cogliere una transizione dal ribellismo (tipico della costruzione della propria immagine come puer, promotore di un rinnovamento radicale) alla moderazione (connotata da quelle doti di persuasione, realismo e compromesso, che il senex offre come proprie credenziali), Fiore degli anni Cinquanta-Sessanta ci appare come un utopista che ritrova un sogno a lungo represso entro le maglie del tatticismo e del prudente lavorio organizzativo, al fianco dei liberali e degli azionisti… Fiore non solo aderisce al Partito socialista italiano, ma sposa in pieno (e fino ai suoi ultimi giorni) la causa della convergenza con quel Partito comunista…».
Tommaso Fiore è stato un combattente. L’utopia, il motore perpetuo della sua azione. Dove oggi altri come lui?
Daniele Maria Pegorari, Le utopie di Tommaso Fiore, Stilo editore