Al centro della mia città c’è un grande prato verde: in pieno centro, fra la villa comunale e la Fiera. Per molti anni quel grande prato verde è stato un libro chiuso che nessuno ha letto più ma, passandoci vicino, tutti gli davano un’occhiata e sicuramente tanti sospirando ricordavano ciò che un tempo esso era.

Il posto di cui parlo è proprio a fianco alla villa comunale, parallelo ad essa, ma un po’ più rientrato. Tra l’uno e l’altra c’è una strada, come il corridoio di mezzo che in un appartamento separa le due ali della casa. La villa è il vano lungo e affaccia sulla piazza principale. È un rettangolo, un tratto verticale che unisce il centro con la Fiera e la circonvallazione interna. Il grande prato verde a fianco un tempo era un ippodromo, e non solo, ed è più interno rispetto alla villa. Prima c’è un edificio di stile neoclassico che era il Palazzo di giustizia ed oggi è la sede della Facoltà di Giurisprudenza. Di lato, un’ariosa e accogliente piazza. Poi una grande caserma, quindi dei solidi e decorosi caseggiati popolari, che mettono l’ex ippodromo al riparo da sguardi frettolosi e impiccioni. Per questo lì ci andavano i ragazzi a consumare i loro primi amori. Le coppiette senza macchina, protette dagli alberi frondosi che lo costeggiano, si addossavano al muro perimetrale dell’ippodromo e si scambiavano carezze.

In verità l’area del grande prato verde almeno in parte è sempre stata utilizzata. Nel suo lembo iniziale a ridosso del raffinato ingresso realizzato come il resto dell’opera dall’architetto Piacentini da tempo convivono senza amore la facoltà universitaria di Economia e commercio e l’Istituto Regionale Incremento Ippico, ultima traccia dell’originaria destinazione d’uso di quest’area che nel 1931 era periferia quando, sulla sua superficie di 22 ettari, nacque il Deposito Erariale Cavalli Stalloni di Foggia[1]: erano otto in tutt’Italia e avevano lo scopo di fornire all’esercito cavalli di razza per vari impieghi militari. Al centro del Deposito della nostra città c’era la pista per le corse dei cavalli e la tribunetta per i numerosi spettatori che assistevano alle gare.

Io la ricordo ancora, quella tribunetta diroccata, rimasta per anni a troneggiare fra gli sterpi nello spazio a lungo aperto ed accessibile, dopo il trasferimento dell’ippodromo in un paesino della provincia. Certe mattine, in quell’area libera, ci andavamo a correre. La gente ci portava a passeggiare il cane. Qualcuno raccoglieva verdure. Questo grande prato verde ha un’estensione di venti campi di calcio. Se fosse un cuore, sarebbe enorme.

I libri sono come i palazzi. Quando cammini ti muovi nello spazio fra loro. Essi definiscono il tuo percorso. Ogni volta che pensi e parli, fai la tua strada fra le parole dei libri in circolazione nel mondo in cui vivi.

Un grande prato verde c’è in ogni città, è un Classico, di quelli trasversali, tipo Il piccolo principe, Pinocchio, Peter Pan… uno di quei libri che leggono tutti, proprio tutti, e non solo nel corso del tempo, in una determinata età della propria vita, ma anche contemporaneamente, per esempio nonni e nipoti: caso mai passeggiando insieme, mano nella mano in un parco urbano. In un grande prato verde crescono speranze che si chiamano ragazzi ma chiunque ci può passeggiare per le più svariate ragioni, da solo o in compagnia oppure in cerca di compagnia. In un grande prato verde non ci sono palazzi, non c’è strada, ci sei tu e gli altri, e un po’ di libertà più del solito.

  • Ogni città è un grande romanzo. Quando cammini ti muovi tra le pagine della sua storia. Sei un personaggio anche tu ma come un autore quella storia puoi ripercorrerla e rifarla come vuoi.

La mia città ha conosciuto primati di civiltà, false partenze e abbandoni, splendori imperiali, matrimoni regali, terremoti e bombardamenti. È al centro di una pianura ricca e fertile. È stata il crocevia di secolari transiti pastorali. Il suo nome forse deriva da fovea, per via delle fosse dove si interrava il grano fino ai primi decenni del secolo scorso. Nel piazzale da cui, lunga e diritta, parte la via per il Gargano c’era una volta il Piano delle fosse. Per Ungaretti fu un incanto[2].

«Piazza ovale che non finisce più, d’una strana potenza. È tutta sparsa di gobbe, sconvolta, secca, accesa di polvere. Da un lato la chiude una fila di carri obliqui sulle ruote nelle profondità dei quali i fichi d’india messi in mostra fanno come un mosaico con i loro colori gelati. Grandi scommesse a chi ne mangerà di più, e c’è chi arriva a mandarne giù anche cento. Mi sono avvicinato ad una delle tante gobbe. Dietro aveva come le altre una piccola lapide. Smossa la terra, tolte le assicelle apparse sotto s’è aperto un pozzo e dentro s’alza un monte di grano. Questa piazza a perdita d’occhio nasconde dunque l’uno accanto all’altro un’infinità di pozzi, conserva il grano della provincia che ne produce 3.000.000 di quintali e più. Altro che grotta di Alì Babà. Ho visto cose antiche, nessuna m’è sembrata più antica di questa, e non solo perché forse il Piano c’era prima di Foggia stessa, come fa credere la curiosa analogia fra “Foggia” e “fossa”, ma questo alveare sotterraneo colmo di grano mi riconduce a tempi patriarcali, quando sopraggiungeva un arcangelo a mostrare a un uomo un incredibile crescere e moltiplicarsi di figli e di beni. Nessun luogo avrebbe più diritto d’essere dichiarato Monumento Nazionale.» (22 agosto 1934)

Come un autore il suo romanzo anche quello della propria città ognuno lo può cominciare dove vuole. Infiniti sono gli inizi. Ce n’è sempre un altro, indietro nella linea del tempo, come il primo bagliore di un raggio di luce. L’orizzonte degli eventi della nostra civiltà è cinquecentomila anni fa.

Si chiama Grotta Paglicci[3], è in agro di Rignano Garganico quasi ai piedi del promontorio, a cento metri di altezza. Arrivati dall’Africa, affacciandosi da quella terrazza sulla pianura, quei primi uomini si saranno sentiti signori del mondo e si fermarono lì, protetti dai monti, sospesi fra terra e cielo. Le loro tracce si perdono undicimila anni fa. Ci hanno lasciato un tesoro, dentro quella loro dimora collegata a una cisterna naturale che garantiva l’acqua e dunque la vita. In cinquanta anni di scavi dal 1960 sono stati raccolti e catalogati quarantacinquemila reperti: manufatti in selce e osso, pitture parietali.

A consegnarci questi doni, aspettandoci per venticinquemila anni nella serenità della morte, un ragazzo di tredici anni[4], non sepolto ma adagiato sulla terra in posizione supina, il capo girato verso destra, l’avambraccio destro ripiegato sul braccio e la mano rivolta verso il viso. Ci ha accolti ornato con una trentina di denti forati di cervo intorno al cranio e altri vicino al polso sinistro e alla caviglia destra. Sul petto una conchiglia, scampolo di una collana. Aveva come corredo grattatoi, un punteruolo, un bulino, un blocchetto di ematite. Era cosparso di ocra. A fargli compagnia, ma in una fossa, una giovane donna di diciotto-venti anni, le braccia parallele al torace e le mani accostate sul pube.

In un tempo remoto, come quello delle fiabe, fra sette-ottomila e seimila anni fa, altri uomini venuti da oriente si stanziarono a pochi chilometri dalla mia città. Fondarono un villaggio che si chiama Passo di Corvo, uno dei primi e più estesi insediamenti neolitici d’Europa. È in contrada Arpinova, sulla strada per San Marco in Lamis. Una volta ci sono passato di sera, era inverno, andavo verso il Gargano, la luna sembrava a portata di mano e quello il posto giusto per fermarsi ad abbracciarla. Chissà quante volte quel mio stesso stupore ha riempito i cuori degli uomini arrivati dal mare. Cercavano terre da coltivare. Trovarono spiagge dorate e poi monti e foreste, infine dall’alto videro una pianura sconfinata. Baciarono quella terra inchinandosi alla sua bellezza, si fermarono lì e ci vissero a lungo anche in trecento. Costruirono cisterne per raccogliere l’acqua piovana. Coltivarono cereali e leguminose. Intorno alle abitazioni scavarono fossati a forma di C per proteggere e drenare il terreno. Con occhio esperto di appassionato archeologo li vide dall’alto un pilota inglese in missione durante la seconda guerra mondiale.[5]

Ci hanno lasciato due statuette della loro Dea Madre[6]. Una ha gli occhi socchiusi, è dolcemente assorta in preghiera o estasi, porta al collo una lunga collana. Sotto i piccoli seni, sul fianco e sul dorso, alcuni segni a zig-zag alludono alle onde e all’acqua. Sul busto due triangoli contrappostidisegnano una coppia di farfalle, simbolo di rigenerazione e mutamento. Sotto la narice tracce di ocra, rossa come il sangue, che forse in origine era su tutto il volto. Ogni storia la puoi leggere anche in altro modo. C’è sempre in essa un nulla di inesauribile segreto. Quella Dea Madre, con copricapo frigio e collana dal numero magico di ventidue grani, potrebbe essere una sciamana. Il rosso una perdita di sangue per il suo stato di trance. Nei segni a zig-zag, inoltre, qualcuno vede la costellazione Cassiopea, generatrice degli spiriti umani, verso la quale s’involerebbe l’essere dopo la morte.

Ancora una grotta, si chiama Scaloria. È all’ingresso della città di mare avamposto meridionale del Gargano, a poche decine di chilometri da Passo di Corvo. Del secondo inizio della nostra civiltà ad opera degli uomini venuti da oriente in cerca di terre da coltivare, a grotta Scaloria ci sono le tracce della fine: un centinaio di vasi votivi collocati in corrispondenza di stalattiti spezzate per raccoglierne, goccia a goccia, le acque di stillicidio[7]. Ceramiche pregiate di classe figulina a bande rosse e nere per invocare aiuto dall’alto in una grave emergenza legata al ciclo delle acque. Ma a nulla servì ogni rito propiziatorio e intorno al 3.500 a.C. dalla pianura al mare nella nostra terra scomparve ogni traccia di vita umana.

  • Ogni inizio ha una fine, ma un romanzo non finisce mai. Nessuna fine esaurisce una storia. Negli spazi bianchi fra le righe, invisibile agli occhi come un fiume carsico, scorre un’infinita energia narrativa che in ogni momento chiunque può raccogliere per continuare, ricominciare, cambiare e raccontare, quella storia, a modo suo. Quel grande prato verde, cuore della mia città, dove convivono senza amore la facoltà universitaria di Economia e commercio e l’Istituto Regionale Incremento Ippico, al tempo di Passo di Corvo era un villaggio neolitico di 1.880 metri quadri, ora è un parco e ha nome Campi diomedei perché prima del suo inizio la nostra città conobbe la gloria del figlio di Tideo[8].

Tornato a casa da Troia, come accadde ad altri suoi compagni, a nulla valsero a Diomede le imprese di guerra. Dimenticato dai sudditi, tradito dalla moglie, con una compagnia picciola si avventurò per mare cercando una nuova patria. Era re e fu profugo. Come Ulisse vagò per il Mediterraneo. Insegnò alle genti l’arte della navigazione e la domesticazione dei cavalli. S’imbattè infine nel  maestoso incanto della nostra terra generosa di frutti e di spazi, sentì sul suo corpo la carezza dei venti, immaginò l’ebbrezza delle corse a cavallo dai monti del Gargano a quelli del Vulture, nel 1.182 a.C. al centro del Tavoliere fondò una città e la chiamò Argos Hippium come la polis del Peloponneso di cui era figlio. Fu alleato del re Dauno contro i Messapi ed ebbe l’amore della figlia Enippe. Turno, anch’egli figlio di Dauno, gli chiese di combattere nel Lazio contro Enea, ma egli rifiutò.

Non per la stanchezza dell’età, né per il timore di un nemico di cui ben sapeva il valore e neppure perché come tanti suoi compagni conosceva ormai la maledizione di quella lontana e sofferta vittoria. No. Colui che aveva seminato strage fra i nemici troiani e avuto il sacrilego ardire di ferire Venere e Ares e portar via il Palladio dalla rocca di Ilio, la nostra terra con la sua dolcezza indusse a una vita senza empietà, inganni e violenza. Fondò altre città, il figlio di Tideo, e nella natura esigente di cure e ricca di doni della sua nuova patria trovò una sconosciuta, inattesa e laboriosa pace.

Fonti autorevoli dicono che per questioni di interesse si sia poi scontrato con Dauno e che questi lo abbia fatto uccidere, o viceversa[9]. No. Nella mia storia Diomede muore vecchio e sereno su una rocca in una delle isole che oggi portano il suo nome. Muore lanciando lo sguardo oltre il mare per abbracciare con un sorriso i suoi due mondi. Muore ripensando a quel giorno sciagurato del duello con Enea quando osò sfidare gli dei, fiducioso d’aver poi meritato il perdono del cielo per il suo gesto di pace nei confronti dell’antico nemico. Forse, nella lungimirante saggezza della vecchiaia, morendo immaginò pure che da un mare all’altro i figli dei figli di quei dauni e achei e troiani e latini sarebbero stati un giorno uniti in una patria comune. Muore, Diomede, nella mia storia, soddisfatto per i suoi anni maturi prodighi di vita e sazi d’amore e come tutti sanno i suoi amici d’arme e d’avventura vollero restare per sempre con lui e da allora volando in forma d’uccelli allietano con il loro canto la sua tomba e quell’isola bella che, profughi, li aveva accolti nel suo grembo.

  • Percorrendo gli ariosi spazi dei campi a lui dedicati, apriamo allora il cuore all’orgoglio per il gesto di Diomede e cominciamo da esso ad amare la nostra terra che tanto di bellezza nutrì l’eroe greco da indurlo a ripudiare la gloria effimera della guerra. Diomede non brucia le sue colpe tra le fiamme dell’Inferno. Diomede vive nel riscatto dei giorni vissuti nella nostra terra di cui è tra i padri nobili. Resti il suo gesto in memoria tra i colori rosso e nero della nostra bandiera di comunità.

Non chiederti come sia andata davvero o come finisce una storia perché nessuna storia finisce mai ed ogni storia esiste solo in relazione a quella di chi legge. Chiunque, leggendo le pagine di un romanzo o attraversando le strade di una città, cambia ciò che vive, che abbia o meno intenzione di farlo. Così come libri e città cambiano te, che tu lo sappia o meno, che tu voglia o no. Se tu dai loro il meglio di te, altrettanto faranno essi con te. È dunque cosa buona e giusta leggere e stringere con la propria terra un’alleanza d’amore. Solo così noi saremo migliori e forse domani vivremo in pace in un grande prato verde, come oggi Diomede a Foggia.

[1] https://manganofoggia.it/i-cavalli-stalloni/

[2]  Lettere meridiane, Geppe Inserra https://www.youtube.com/watch?v=UK4gYFCSgLc

[3] http://www.grottapaglicci.it

[4] https://www.gargano.it/grotta-paglicci/

[5] https://www.dauniatur.it/wp/2014/06/12/parco-archeologico-di-arpi/

[6] https://www.famedisud.it/il-mistero-della-dea-madre-o-sciamana-di-passo-di-corvo-il-sito-neolitico-piu-grande-deuropa/

[7] https://www.comune.manfredonia.fg.it/aast/grottascaloria.htm

[8] https://digilander.libero.it/storiadifoggia/arpi.htm

[9] Ettore Paratore: http://emeroteca.provincia.brindisi.it/Archivio%20Storico%20Pugliese/1953/Archivio%20Storico%20pugliese%20A.6%201953%20fasc.1-4%20articoli/La%20Leggenda%20Apula%20di%20Diomede%20e%20Virgilio.pdf