«Scrivo la storia di mia madre perché… vorrei fare di questa MORTE VOLONTARIA, un caso» (ndr: le parole in maiuscolo sono una scelta espressiva molto ricorrente nel testo). Non sappiamo cosa intendesse Peter Handke con «caso». Certamente con Infelicità senza desideri (traduzione di Bruna Bianchi) ha fatto quel che sua madre non è riuscita a fare in vita con se stessa:

uscire da quel cono d’ombra di donna «invisibile» dove l’aveva relegata la Storia o, più semplicemente, il contesto natale. «Non scappò mai. Aveva imparato qual era il suo posto». Il suo posto era… non essere nessuno, come tante altre donne non solo di quel tempo e di quel luogo.

Nata in una famiglia povera di piccoli contadini in un villaggio della Carinzia slovena, penultima di cinque figli, per Maria Handke e le tante altre come lei «Nessuna possibilità, tutto già previsto: piccole galanterie, risolini, un’ebbrezza breve, poi repentinamente la faccia severa, riservata, che diventava subito un’abitudine, i primi figli, stare un po’ lì dopo le faccende di cucina, non essere ascoltata mai sin dall’inizio, fingere lei stessa di non udire, parlare da sola, reggersi poi a fatica, le vene varicose, niente più che un mormorio nel sonno, cancro all’utero, e con la morte la predizione alla fine si avvera. Le vari fasi di un gioco che facevano le bambine di quei posti si chiamavano: Stanca-Debole-Malata-Moribonda-Morta». A quelle bambine le indovine neanche leggevano il futuro: sorridevano con sufficienza, o commiserazione.

Il libro di Peter Handke (premio Nobel 2019) è del ’72 ma è stato pubblicato solo adesso in Italia. Fu scritto dall’autore, poche settimane dopo il fatto, per la dolorosa urgenza di dar conto a se stesso e a chiunque delle ragioni del suicidio della madre, cinquantunenne. Infelicità senza desideri è un libro che se cominci a sottolineare non la finisci più perché ogni parola/azione ha una sua icastica memorabilità. La tonalità è tesa e drammatica. Emozioni e sentimenti nel pieno controllo letterario di rigore e precisione. Totale narrativo: un’aguzza scheggia di luce che ti ferisce il cuore, perché Maria Handke la vita non se l’è tolta, le è stata negata. Eppure…

I fatti. Maria «voleva studiare; perché, da bambina, studiando aveva percepito qualcosa di se stessa… per la prima volta un desiderio, che diventò un’idea fissa». Niente da fare. A quindici o sedici anni, però, Maria va via di casa per lavorare in un ristorante sul lago. «La vita di città: vestiti corti, scarpe coi tacchi alti, la messa in piega, gli orecchini, una spensierata voglia di vivere. Perfino un soggiorno all’estero!, come cameriera nella Foresta Nera, ADORATORI tanti, ESAUDITO nessuno! Uscire, ballare, divertirsi, far chiasso: la paura del sesso veniva mascherata così: ma se non mi piaceva nessuno! Il lavoro, il piacere; cuore pesante, cuore leggero, Hitler alla radio aveva una bella voce».

  • Lontano da casa, Maria sboccia alla vita, diventa autonoma, trova un ritmo e un senso anche nei riti collettivi del nazismo. È orgogliosa di se stessa. Arriva anche l’amore, il primo e l’unico. È il picco, ma con lo splendore le ombre.

Lui è un camerata, un impiegato della cassa di risparmio, è più basso di lei, ha molti più anni. «Una coppia male assortita, ridicola». Lei, però, lo amava e «gli tenne compagnia nella sua solitudine di soldato… Aveva tante attenzioni per me, e io non avevo paura di lui come degli altri uomini». È sposato, Maria resta incinta, di Peter, che vedrà per la prima volta il padre dopo l’esame di maturità, a vent’anni circa.

Fine dell’«ebbrezza breve». Maria sposa un sottufficiale della Wehrmacht «che l’ADORAVA già da tempo e a cui non importava niente che lei aspettasse un bambino da un altro»: le ripugnava, ma era suo dovere dare un padre al bambino. Altro passo obbligato tornare a casa, dopo una parentesi di soggiorno a Berlino. Finita la guerra, tutto è più grigio e la miseria ancora più grave. Dimentico della sua passione iniziale, disoccupato e spesso ubriaco, il marito è solo un peso. Altri figli. Lento e inesorabile, comincia per Maria il precipizio dentro se stessa.

«Non era dunque diventata nessuno e ormai non poteva più diventare qualcuno… Raccontava già dei suoi tempi, anche se non aveva neppure trent’anni… Mise su giudizio senza capire niente». Necessità e convenzioni la ridurranno a quell’Infelicità senza desideri, a quell’anonimato di «donna invisibile» che deve saper dare il buon esempio della rinuncia e che lei accettò nonostante fosse «in grado di figurarsi una vita non fatta solo di lavori domestici dall’alba al tramonto».

Prima che la forza della gravità ambientale la schiacciasse, un ultimo spiraglio di libertà per Maria fu la lettura: un modo per lei di guardarsi allo specchio attraverso i personaggi dei romanzi. Leggeva Fallada, Knut Hamsun, Dostoevskij, Gor’kij, Thomas Wolfe e William Faulkner e con il figlio Peter commentava: «Io, però non sono mica così… come se l’autore avesse voluto descrivere proprio lei. Leggeva ogni libro come una descrizione della propria vita, e leggendo cominciava a vivere; per la prima volta usciva fuori dal suo guscio; imparava a parlare di sé; a ogni libro le venivano in mente più cose. Così, a poco a poco, imparai qualcosa di lei».

«Leggendo torno giovane», nella sua frase più bella sulla lettura c’è tutto il dramma di Maria: «In realtà, leggeva i libri solo come storie del passato, mai come sogni del futuro… La letteratura non le insegnava a pensare finalmente a sé, ma le spiegava che ormai era troppo tardi. AVREBBE POTUTO svolgere un ruolo. Ora, al massimo, pensava ANCHE UN PO’ a sé, e quando faceva la spesa a volte si concedeva un caffè, non si preoccupava più TANTO di quello che pensava la gente».

Integrando con l’immaginazione la verità di una vita e di un mondo, Peter Handke ha scritto una biografia che è un romanzo perché ha reso universale ciò che è unico.

Peter Handke, Infelicità senza desideri, Guanda