Le canzoni le conoscevo tutte. Sono state la colonna sonora della mia giovinezza. The dock of the bay forse il primo sbarco musicale oltreoceano. I libri no, gli autori sì; altri loro titoli, ma quelli no: né Le palme selvagge di Faulkner né Urla d’amore di Patricia Highsmith. Obbligatorio leggerli. Nel minimalismo robusto di Perfect days – come in una poesia – i significanti non sono decorativi ma profondamente connotativi: tutti concorrono alla determinazione del significato che è per lo più la loro somma… dinamica, ovviamente, filtrata cioè dalla chiave interpretativa di chi vede o legge.

  • Il protagonista non ascolta della musica, ascolta quella musica. Non legge dei libri, legge quei libri: perché Wim Wenders gli fa leggere proprio quelli? Hirayama sarebbe lo stesso se ne leggesse altri? Che hanno a che fare quei libri con la sua storia? In che modo definiscono la sua storia?

Un autore fa come gli pare, non deve dar conto delle proprie fantasie. L’opera è la sua verità. Chi fruisce di un’opera ha eguale libertà e se vuole può perdersi nel gioco delle varianti svolgendo come in un labirinto il filo argomentativo di una o qualcuna delle infinite possibilità di ricostruzione critica.

Perfect days racconta la quotidianità di Hirayama, sessantenne, addetto alle pulizie dei bagni di Shibuya – uno dei quartieri più dinamici di Tokyo – che per tecnologia e particolare cura estetica sono una vera e propria attrattiva turistica.

Il film ha cadenza di documentario, tale era l’idea iniziale. Poi il cambio di marcia.

La struttura narrativa scorre piana. I giorni si susseguono uguali. Apparentemente. In realtà Hirayama vive ogni momento con una pienezza tale da trovare in essi sempre elementi di novità o motivo di quieta felicità. Ogni occasione è buona per sorridere alla vita, per arricchire la propria umanità.

Su questo tessuto connettivo piccole variazioni di incontri diretti. Da uno dei quali apprendiamo che nel passato di Hirayama c’è stata una burrasca. Ha rotto con il padre. In modo, sembra, irreversibile. Non sappiamo perché, ma capiamo che il suo equilibrio è stato una faticosa conquista.

Hirayama gioca a Tris con uno sconosciuto scambiando mosse su un bigliettino anonimo lasciato in un bagno, e allora giochiamo anche noi a Tris con Wim Wenders. Lui ha tracciato in una casella del film un segno, Le palme selvagge. Noi proviamo a rispondere cercando nel libro un punto di contatto fra la storia che esso racconta e quella di Hirayama.

  • Intanto una constatazione. Ogni frase in Faulkner è un’imprevedibile, articolata e complessa avventura sintattica, talvolta di ardua lettura. Anche gli sviluppi narrativi sono strappi e scossoni, che seguono rimuginìi, estro e umori dell’autore più che un filo logico. L’esatto contrario della cristallina linearità di Wenders.

Le palme selvagge alterna due vicende, che non hanno rapporto fra loro. Nella nostra partita a Tris ci giochiamo la prima, che dà il titolo al romanzo (la seconda si chiama Il vecchio, ed è la storia di due evasi). Palme selvagge (nei vari capitoli senza l’articolo) racconta un amore più folle che assoluto, più fortuito che colpo di fulmine. All’inizio solo l’azzardo di un timido, la giocosa frivolezza di un’irresponsabile. Poi l’attrazione diventa passione, non s’arrende alle difficoltà ma si fortifica nutrendosi di spirito ribelle e bohémien. Alla fine il legame della coppia è indissolubile.

Forse anche all’origine della rottura di Hirayama con la famiglia c’è un amore contrastato. Chissà, ma – poco importa – libera fantasia in libero gioco. Comunque la nostra mossa sul foglietto del Tris eccola qua.

Durante la pausa pranzo al parco, mentre mangia un panino, Hirayama guarda il cielo e gli alberi e con macchinetta analogica fotografa nuvole e rami ammirando soddisfatto il loro sempre diverso e particolare assetto. Anche Wilbourne, il protagonista di Palme selvagge, in una dolorosa situazione di impotenza e costrizione si rasserena guardando al tramonto l’orizzonte oltre la finestra: «E la luna cominciò a crescere ogni notte mentre lui se ne stava lì, e lui se ne stette lì nella luce morente mentre ogni notte calava».

Solo entrando in relazione con i poderosi o impercettibili cambiamenti di quel movimento perenne e incessante al di là di noi – in alto, intorno, ovunque – possiamo far pace con la nostra memoria e le sue ferite e «tra il dolore e il nulla» scegliere anche noi «il dolore». Come Wilbourne e Hirayama. E poi, chissà, trovare un giorno di nuovo la forza per «quel piccolo gesto di sfida, almeno quel po’ di bellezza scagliata nuovamente sui loro brutti musi» – e questo è Stanley che nel giardino condominiale ha piantato due cespugli e non s’arrende quando I Barbari – titolo di uno dei racconti di Urla d’amore – glieli sradicano.