Faccia a faccia – incontri, letture, miti letterari – La narrativa italiana degli anni Ottanta –
Roberto Pazzi – La via dell’Ippogrifo
Era il 1986. Di anni ne avevo già abbastanza ma solo da poco mi occupavo professionalmente di narrativa contemporanea: interviste, ai maggiori autori italiani, e anche stranieri – quando in giro promozionale nel nostro Paese. A quel tempo domande e risposte erano faccia a faccia, non via mail.
Ci si incontrava nella hall di un albergo, oppure in casa editrice (Tondelli, Rimini, alla Bompiani, in via Mecenate). Altre volte l’appuntamento era in luoghi improvvisati, tipo bar (con affaccio sull’Arno, Tabucchi, Piccoli equivoci senza importanza) o stazione (Del Giudice, in viaggio, a Firenze, Atlante occidentale). Non di rado, però, l’appuntamento era a casa dell’intervistato. Con Vassalli la prima volta (La chimera) ci siamo visti nella canonica di Pisnengo (Novara) che aveva affittato e riconvertito in casa. Con De Carlo (Macno) a Milano in una soffitta in centro – chissà perché, mai chiesto – e poi altre volte in case sempre diverse. Con Busi (Vita standard di un venditore provvisorio di collant) nel pianoterra della casa natale a Montichiari.
- Quell’anno lì, il 1986, L’Espresso organizzò un dibattito in redazione con i giovani scrittori – erano chiamati proprio così – Del Giudice, Pazzi, Tabucchi e Tondelli da una parte; Guglielmi, Manganelli, Moravia e Sanguineti dall’altra. Grande emozione: come se fossero stati convocati in nazionale (allora L’Espresso era la nazionale della cultura) quattro calciatori della squadra della mia città.
Di quelle due squadre non è rimasto più nessuno. Se n’è andato anche l’ultimo dei quattro giovani scrittori. I magnifici quattro. Il 2 dicembre 2023 è morto Roberto Pazzi.
- Del Giudice, Pazzi, Tabucchi e Tondelli erano – e sono – quattro vie maestre. Cercavano tutti e quattro un nuovo sentimento per il nostro tempo: Daniele Del Giudice nella transizione epocale dagli oggetti meccanici a quelli di luce, Tabucchi nella saudade o nostalgia di un altrove teorico e plausibile, Tondelli nella cultura del rock e nei nuovi comportamenti e riti collettivi dei più giovani. Scrittura quantistica la prima, ondulatoria e corpuscolare al tempo stesso; di raffinata semplicità complessa la seconda, impegnata nella difficile descrizione dell’equilibrio instabile delle molteplici anime dentro di noi; con ampiezze descrittive, ritmi serrati e corali e alternanze liriche la terza.
Quella di Roberto Pazzi era la via dell’Ippogrifo.
Roberto Pazzi l’ho incontrato la prima volta nelle quiete stanze della sua casa di Ferrara. 1985, Cercando l’imperatore. A settembre c’era stato il Super Campiello e con quel suo romanzo d’esordio si era classificato al secondo posto. In viaggio prenatalizio dal Nord verso Foggia feci tappa a Ferrara. Lunga e suggestiva passeggiata nel pomeriggio sonnacchioso prima dell’appuntamento.
La città, però, l’ho vista davvero quando poi Roberto Pazzi ha messo in commercio le lenti metafisiche del dottor Malaguti – protagonista del suo primo romanzo ambientato nel presente – e di Ferrara ha fatto una città aperta al sogno perché nei suoi ritmi blandi, nella sua ripetitività, nel suo ordine, nei suoi vuoti, nei suoi silenzi, nelle sue ombre ha colto un’istigazione alla fantasia, all’immaginazione, alla ricchezza della diversità. In provincia, in ogni provincia, dove tutto sembra non poter cambiare mai, a Ferrara come a Foggia, è forte la tentazione di sconfiggere con buone lenti la miopia per eliminare le insidie della fantasia e arroccarsi, quindi, con animo sereno nel mesto loop dei giorni. E invece no.
Roberto Pazzi era forza, consapevolezza, passione. Gli occhi mobili, avidi di luce. Lo sguardo fiero, la barba autorevole che evocava assonanze regali, e lui lo sapeva e le assecondava. Nel ritmo della parola l’impeto di una volontà che insegue un sogno al di là della ragione.
Quel pomeriggio lì, nel decoro borghese delle quiete stanze, la nostra conversazione cominciò più o meno così, con pressing alto: «Mentre i nipotini di Moravia (come Cordelli, come Montefoschi) celebravano i loro trionfi a Roma (dove sembra che ci sia una scuola per geni), io lavoravo in un’oscura scuola di un’oscura provincia (Ferrara) e scrivevo romanzi collezionando rifiuti. Cercando l’imperatore è stato rifiutato da cinque editori: Mondadori, Rusconi, Longanesi, Feltrinelli, Adelphi. Ma a ogni no io rispondevo con un nuovo romanzo e così ne ho scritti quattro in quindici anni».
Negli anni Ottanta la narrativa è rinata dopo la morte presunta del romanzo teorizzata nei due decenni precedenti da esponenti vari di quella che era stata l’avanguardia letteraria, organizzata nel Gruppo ’63 (tra cui gli stessi Guglielmi, Manganelli e Sanguineti). Quel confronto nella redazione del L’Espresso fu un passaggio del testimone, una finale di Champions.
Pazzi: «Non ho mai avuto simpatia per le avanguardie del Gruppo ’63 perché privilegio il momento creativo su quello critico, riflessivo e non mi sono mai molto domandato, mentre scrivevo, perché lo facessi, come lo facessi, per chi lo facessi quasi nel sospetto che l’immaginazione, la fantasia venissero ad essere danneggiate da un eccesso di consapevolezza critica, filosofica. Oggi i fatti danno ragione a me come ai vari Del Giudice, Tabucchi, Tondelli, Busi perché sta tornando il piacere di narrare, il gusto della fantasia, dell’immaginazione e la riscoperta della creatività provinciale, solitaria e individuale, che non è andata a scuola per sapere cosa deve fare. Io credo, infatti, nella sostanziale solitudine dell’individuo creativo».
Poi continuammo la partita con costruzione dal basso, partendo da dietro, dai trascorsi con la poesia.
«Dalla poesia al romanzo è stato un passaggio sotterraneo, inconscio, inavvertito. Ho sempre rifiutato l’ermetismo e lo sperimentalismo linguistico. La mia poesia era narrativa così come la mia prosa è lirica. Era già implicito nel mio modo di scrivere versi la tendenza ad approdare a fatti personali o della storia da narrare, esporre.»
Dopo il fraseggio a centrocampo, la verticalizzazione: «Chi viene dalla poesia ha un lungo esercizio a tenersi fuori dal commercio perché la poesia è senza mercato, clandestina. Un poeta, quindi, scriverà un romanzo con lo stesso spirito con cui scrive una poesia: per sé, per necessità intima, interiore non per lusinghe del marketing. I poeti, inoltre, sanno essere fedeli alle forme metriche consolidate che li precedono da secoli; allo stesso modo il poeta che si fa narratore sarà fedele più di altri all’artificio della trama inventiva, della finzione.»
C’era una bugia all’Est. Ma, prima ancora che le masse o la politica, l’ha demolita un romanzo, Cercando l’imperatore. La Storia poi ne ha preso atto, capovolgendo con brusca accelerazione un destino immutabile. Certi conti si possono saldare anche per via estetica perché c’è una segreta e misteriosa corrispondenza tra il microcosmo delle ossessioni individuali e il macrocosmo dei grandi eventi.
«La lettura, a dieci anni, dell’eccidio di Ekaterinenburg provocò nella mia mente una specie di cortocircuito identificatorio. Devo aver sentito qualcosa di me nello zarevic (il bambino malato, solo); qualcosa di mio padre nello zar debole e dolcissimo; qualcosa di mia madre nell’energica zarina. Questa materia è venuta crescendo dentro di me dai dieci ai trentatré anni finché un trauma, una grossa depressione mi fece scattare un meccanismo proiettivo ed espressivo per cui mi misi a scrivere la storia degli ultimi giorni della famiglia imperiale.
«Il mio romanzo, in fin dei conti, è una sfida, una provocazione; è il tentativo di sottrarre al giudizio per sempre pronunciato e negativo dello storico l’ultimo zar per rivisitarlo in sede estetica dove valgono leggi completamente diverse da quelle degli storici e i cattivi, i vinti sono sempre più stimolanti, interessanti dei buoni, dei vittoriosi. L’artista guarda alle ragioni dell’io, dell’individuo che lo storico disattende per tener conto delle grandi coordinate collettive come popolo, masse…»
Nulla succede mai per caso nel mondo assolutamente arbitrario dell’arte. Il vento nuovo della narrativa degli anni Ottanta era innervato da un bisogno collettivo di riflessione e ridefinizione dei valori umani di fondo dopo il loro tempestoso logorio negli anni convulsi della contestazione politica e dei movimenti di massa. Troppe parole – da velenose ideologie indebitamente gonfiate con la maiuscola iniziale – sbatacchiate di qua e di là ed esibite senza pudore come vessilli fra canti di guerra. Troppo. Dalla Storia alle storie.
«Il fascino dei vinti è quello di rendere nuovamente da costruire e definire i confini tra Bene e Male perché il vinto (come Nicola II) partecipa sia del Male (quello commesso quando era nel potere) che del Bene (la sua espiazione). I vinti rendono evidente l’eterna labilità dei confini morali tra Bene e Male la cui esigenza è universale ma i cui contenuti cambiano sempre.
«La mia verità è che abbiamo torto e ragione sempre contemporaneamente e non dobbiamo fissare mai nella maschera alcuno; dobbiamo essere sempre pronti a ridefinire i nostri giudizi. Quindi io credo che la letteratura celebri il suo più alto trionfo quando costringe il lettore a non avere più le certezze che aveva prima; quando è scomoda; quando crea tempesta di incertezza nell’orizzonte visuale della storia di ieri e di oggi. Io ho costruito il personaggio di Nicola II in maniera tale da muovere il lettore a pietà, simpatia, emozione per costringerlo a rivedere i suoi giudizi, per via estetica.»
La Storia si può ricostruirla in modo verosimile (Vassalli), si può arricchirne l’orizzonte sociale e capovolgerne i valori (Morante) ma si può anche reinventarla con incongruo assemblaggio esclusivamente dettato da fantasia e immaginazione.
Nasce così l’Ippogrifo: che sia vero non conta, l’importante è che sia vivo.
«Io sono convinto che lo scrittore (come dice Alfieri) è un mancato uomo d’azione (un mancato eroe, un mancato guerriero) perché il suo vero sogno è rifare per via estetica la storia grazie all’immaginazione. In qualche modo io che non posso essere zar cerco di esercitare un potere estetico per sedurre, suggestionare, trascinare dove voglio il mio lettore. Il potere sugli altri uomini è politico ma anche estetico. Ce l’ha il politico ma anche l’attore, il commediante, il poeta. Ce l’ha Napoleone ma ce l’ha anche Placido Domingo, ce l’ha anche Carmelo Bene quando legge il canto di Francesca davanti a centomila persone.»
Come loro anche Roberto Pazzi con l’Ippogrifo ha volato sulle ali dell’arte.
La partita di ritorno la giocammo a Foggia. 1990. Palazzetto dell’arte. Roberto Pazzi in campo con Vangelo di Giuda. Un romanzo grande, al di là della Storia, con protagonisti Tiberio – che, in volontario esilio a Capri, ormai vecchio, pretende di governare il Tempo come una provincia – e Cornelia Lucina, figlia di Cornelio Gallo, politico e poeta, amico e poi rivale di Virgilio, tradito e fatto assassinare da Augusto nel tentativo di cancellarne l’opera: questa, l’invenzione romanzesca di Roberto Pazzi, che con guizzo immaginifico si inserisce nelle zone d’ombra della biografia di Cornelio Gallo saltando di slancio l’ipotesi storiografica di una prosaica lotta di potere con il principe.
L’invenzione al quadrato è, però, il contenuto del poema fatto distruggere da Augusto ma salvato da Cornelia. La ragazza, infatti, immagina Roberto Pazzi, l’ha imparato a memoria cantandolo ai pirati che l’avevano liberata dall’isola sperduta su cui era stata abbandonata e ora vuole che anche Tiberio la ascolti, perché solo così il sacrificio della sua giovinezza non sarà stato vano e il vecchio imperatore scoprirà il terribile segreto che quella poesia contiene e che tanto aveva turbato Augusto.
Io ora non ricordo le parole di Roberto Pazzi quella sera a Foggia. Le cerco nel suo libro e nella mia recensione e con esse ritrovo la verità che dentro me quella sera fissai, così come alla fine della storia accade nel romanzo allo stesso Tiberio: l’amore vince il Tempo, non il potere.
Con le parole del padre Cornelia, infatti, racconta all’anziano imperatore che un bambino di nome Jeshua nella lontana provincia di Palestina mentre «cresceva con quella sua dolcissima facoltà di capire le cose più assurde» ripeteva agli smarriti genitori «La morte non esiste» e ascoltava gli animali, parlava agli uccelli e «a Nazareth lo consideravano tutti un po’ pazzo».
Bandito o profeta o figlio di Dio, Jeshua – continua Cornelia – sentiva che quanto sarebbe stato scritto (come Giuda, il più colto dei discepoli, faceva ad insaputa del maestro: questo il suo tradimento) avrebbe mutato il significato di quel che andava dicendo. «Era atterrito dalla possibilità che i comandamenti che egli dava di amarsi l’uno con l’altro come lui aveva amato ma soprattutto quello di amare il dio che era in ognuno, senza più negarsi adorandone uno esterno, potessero irrigidirsi e contrarsi in ordini e regole assolute come leggi di uno Stato e diventare i fondamenti di un nuovo potere basato sull’oppressione di molti da parte di pochi».
Ma anche Cornelio Gallo «sapeva che nessuna opera di vera poesia poteva cantare la perennità di un ordine sociale; per questo rimproverava Virgilio di aver asservito la poesia ad un mondo che sarebbe morto insieme ai miti cantati dall’Eneide. Egli si rifiutava di scrivere in lode della pace romana di Augusto per le stesse ragioni per cui Jeshua non voleva lasciare vangeli per possibili pontefici».
Il Tempo era la malattia poetica di Roberto Pazzi. Il Tempo stravolge ogni intento, così anche la parola scritta, che pretende di essere memoria ed invece è solo tradimento. È l’antica intuizione di Socrate. Unica forza di contrasto la poesia, fior gentile, che quasi i danni altrui commiserando, al cielo di dolcissimo odor manda un profumo, che il deserto consola.
Di poesia senz’altro parlammo tanto anche quella sera, a Foggia, al Palazzetto dell’arte, ma quelle che seguono sono parole di un’altra intervista fatta dove, come, quando non so più. Quel che so è che il libro era La malattia del Tempo, suo secondo romanzo. Quel che so è che queste parole sono parole fuori dal Tempo.
«Romanzo e poesia si possono incrociare attraverso l’uso del simbolo al quale, infatti, io faccio spesso ricorso, al contrario dei narratori laici (come Moravia o Del Giudice). Il simbolo spezza la trama temporale e proietta nella dimensione dell’eterno. In Italia prevale la tradizione realistica. La narrativa fantastica è scarsamente rappresentata. I nomi che si possono fare sono pochissimi: Guido Morselli, in parte Calvino, Landolfi, la Morante, Buzzati. La ragione di quest’assenza è molto semplice: il cattolicesimo e il marxismo, due grandi chiese, hanno castrato la fantasia, dando un’interpretazione dell’oltre. La prima chiesa ne ha dato una biodegradabile, dissossata, dissalata e oggettivata nel dogma e nell’organizzazione cattolica. Guai, quindi, a chi si permetteva di leggere da solo la Bibbia! Come, invece, avveniva nei paesi protestanti dove, infatti, la letteratura fantastica ha ben altra rappresentanza. Leggendo la Bibbia, gli scrittori protestanti avevano a disposizione un materiale di fantasie e di fantasticherie che noi non ci sogniamo nemmeno perché noi la Bibbia non l’abbiamo mai letta. Nel secondo Novecento ha poi prevalso il neorealismo di impronta marxiana per il quale la fantasia è deviazione, fuga dall’impegno, vigliaccheria: l’opera deve riguardare l’oggi, la società, i suoi problemi…»
L’arte, invece, per Roberto Pazzi era volare con l’Ippogrifo oltre il rigore dell’intelligenza, della scienza, della tecnologia per indulgere alla natura e al senso e ritrovare come nell’Ariosto la libertà della pazzia amorosa. L’arte per Roberto Pazzi era volare con l’Ippogrifo al di là del reale per non vedere solo l’oggi ma sentire il passato, il presente e il futuro. Volare con l’Ippogrifo per essere cittadini di una dimensione più aperta, spalancata del Tempo e viverlo tutto, il Tempo: non solo il piccolo segmento che ci è dato in sorte e nel quale sopperiamo ai nostri bisogni.
Dopo quella sera del 1990, a Foggia, al Palazzetto dell’arte, Roberto Pazzi non l’ho più incontrato. Ho continuato a leggerlo e recensirlo. Ci siamo sentiti, qualche volta. Forse incrociati. Niente di che. Perché non so. Succede. Quello che ricordo, però, è la piccola magia del giorno dopo quella presentazione.
Come anche altri – Giuseppe Petronio, Sandro Veronesi, Andrea Pinketts… – essendo quella casa sempre libera e da me quindi utilizzata come foresteria, l’illustre amico ospite dormì nell’appartamento di mio padre al nono piano di viale Michelangelo. Praticamente una suite, e per di più a costo zero.
La mattina, quindi, facemmo colazione insieme sull’ampio terrazzo perimetrale con vista fino al Gargano: imponente all’orizzonte ma dal profilo incerto e sfumato per la distanza. E forse, forse fu proprio quel color di lontananza come dell’isola incantata, come di una splendida utopia e poi, chissà, dell’isola non trovata forse quella mattina il vento aveva il profumo… fatto sta che mentre affacciati ne parlavamo, occhi e parole fecero vela verso il Gargano e mentre scherzando discutevamo di scelte lessicali e costruzioni sintattiche (mai una doppia relativa in una frase, per carità) in un niente ci ritrovammo in macchina con destinazione il mare, sospinti in quella corsa capricciosa da fanciullesca leggerezza.
Non la trovammo neppure noi, quel giorno, l’isola incantata: per via dell’orario del treno ci fermammo prima, a San Leonardo, ma tanto con l’Ippogrifo della sua fantasia Roberto Pazzi ha attraversato quello del Gargano e chissà quanti altri mari.
(1 – continua)