Storia e letteratura fanno lo stesso mestiere. Ci mettono spalle al muro e ci costringono a dire chi siamo. Nella solitudine della nostra coscienza. Oppure in pubblico. A voce alta. Non pronunciano sentenze. Non proclamano verità. Raccontano fatti. Pongono questioni. Seminano dubbi.
Andavano proprio così le cose ad Atene nel secolo d’oro del suo splendore, dall’affermazione dei democratici nel 505 alla resa a Sparta nel 404. Scrive Daniel Mendelsohn nel suo superlativo Estasi e terrore, sottotitolo Dai greci a Mad Men: «La tragedia greca divenne il veicolo letterario ideale per analizzare, spesso in modo critico, i valori politici, sociali e civici ateniesi».
Primavera del 431 a C. scoppia la guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta, Tucidide ne coglie subito la portata («il più grande sconvolgimento prodottosi nel mondo greco e, in una certa misura, in quello non greco: insomma, per gran parte dell’umanità») e comincia a scrivere le Storie per raccontarne «con precisione i fatti», ad Atene va in scena la prima di Medea di Euripide ispirata ad una spiacevole vicenda accaduta a Corinto tempo prima. Tre eventi l’uno dentro l’altro come una matrioska. Fra i primi due il legame è diretto. Consideriamo il terzo.
Giasone che – con oltraggiosi e fatui «giochi di prestigio retorici» – abbandona in terra straniera la moglie Medea e i figli, secondo Mendelsohn, è «una parodia di un certo tipo di politici ateniesi»: i guerrafondai – da Cleone in giù – pronti per volontà di potenza a violare ogni regola di civiltà. Come, per esempio, clamorosamente, nel 416 con l’empio massacro degli abitanti dell’isola di Melo.
Puntualmente, l’anno successivo, Euripide scrive Le troiane in cui Cassandra, con generoso e visionario slancio, ribalta idealmente le sorti del conflitto che ha visto soccombere il suo popolo e dice che invece esso è stato il vero vincitore della guerra («Coprila, o madre, questa mia testa vittoriosa») perché al contrario dei greci, spietati e spergiuri, ha saputo mantenere i propri valori… e mentre così dice pensa al nipote Astianatte, il figlio di Ettore, strappato ad Andromaca affinché la stirpe di Priamo non avesse discendenti e buttato giù dalle mura di Troia. Con la superbia e la violenza di chi, in quanto vincitore, si sente superiore e padrone delle vite altrui.
Nel gioco degli specchi incrociati fra realtà e letteratura, dove l’incertezza regna sovrana, l’unica misura di verità era l’assemblea e il voto dei cittadini ateniesi. Ci ricorda Mendelsohn che le rappresentazioni duravano tutto un giorno, dalla mattina alla sera, erano precedute da solenni riti, i posti erano assegnati e distribuiti per le dieci tribù politiche dell’Attica. Partecipare non era un fatto privato, anonimo e invisibile ma un atto pubblico. Un dovere civico. In gioco, in un modo o nell’altro, la polis.
La partita era sempre impegnativa. Il risultato mai scontato. Per esempio, Antigone di Sofocle, 442. Facile, per noi, parteggiare per la giovane donna che vuol dare sepoltura al fratello Polinice. Antigone è la paladina delle leggi divine o naturali che si voglia. Creonte, però, non è l’arroganza del potere, cinico e sordo ai valori consuetudinari ma il custode delle leggi umane, del bene comune al di sopra di quello individuale. Polinice è stato un traditore della patria, ha combattuto contro Tebe. E, dunque, con chi stare? Peraltro, dopo aver reso solenni onori agli orfani dei caduti in guerra cresciuti dalla polis. Un bel dilemma.
- Fatto sta – ci dice Mendelsohn – che ad un certo punto gli ateniesi persero «la connessione fra tragedia e storia, fra poesia e politica» e la «navicella dello Stato» fu travolta e poi affondata da volontà di potenza, bramosia e tracotanza – in una parola: hybris – tanto che cinquant’anni dopo la splendida vittoria di Maratona contro il potente esercito persiano «nelle Storie di Tucidide gli ateniesi somigliano ormai ai cattivi delle Storie di Erodoto».
L’impianto critico di Estasi e terrore è solido come roccia perché fonde in un unico blocco competenza («Pensare è, in estrema sintesi, formulare giudizi basati sulla competenza»), passione («Negli anni Settanta, quand’ero adolescente e sognavo di diventare uno scrittore, non sognavo di fare il romanziere o il poeta. Volevo fare il critico. Mi sembrava che la critica fosse esaltante e i critici ammirevoli») e forza morale («Dunque era a questo che serviva la poesia: a indicarti come vivere»). Ma c’è di più. «L’impollinazione incrociata fra classici e cultura popolare» di Mendelsohn è un’accurata, limpida e apollinea analisi dei fatti estetici, quali che siano, di ogni tempo. Una chiave che apre mondi. Esplicito il sottotitolo: Dai greci a Mad Men. Ancor di più l’indice, tre sezioni: Miti di ieri, Miti in technicolor (da Almodóvar al Titanic passando per I segreti di Brokeback Mountain), Miti d’oggi (fra cui Foster, Kavafis, Woolf, Yanagihara).
Spettacolare, nella seconda sezione, la recensione di Alexander di Oliver Stone. Il film, una pippa: «Molti dei problemi del film di Stone sono dovuti al fatto che Alexander non sa decidersi fra narrare i fatti della vita del suo protagonista e abbandonarsi al fascino romantico della sua personalità». Ma con la sua recensione Mendelsohn ti intruppa fra i soldati di Alessandro e ti porta al suo seguito, fianco a fianco a lui, dalla Macedonia a Gaugamela fino ai confini dell’India, travolto anche tu pagina dopo pagina dal suo stesso «pothos» ovvero «irrequietezza, bruciante desiderio di vedere e conoscere cose e luoghi nuovi per pura brama di conoscenza».
Mendelsohn ha una qualità ineguagliabile, più che altro una magia: fa sentire che ti riguarda ogni cosa di cui parla e, dicendoti come la pensa, ti spiega perché dandoti gli strumenti per farti tu, su quella questione, una tua opinione. Mendelsohn, insomma, ti aiuta a pensare criticamente.
Daniel Mendelsohn, Estasi e terrore, Einaudi