Dice Uberto Pasolini: «Ho fatto delle regie, ma non sono un regista. Ancor meno un autore. Non vedo nei miei lavori continuità, percorso, ossessioni o altro.

Leggo un articolo, mi colpisce, penso a una storia, comincio a scrivere per approfondire, capire. Sono curioso. Mi interessa la psicologia dei personaggi».

Per certi aspetti ha ragione, forse non è un regista ma non per le ragioni da lui addotte né tanto meno per il numero esiguo delle regie (quattro in quasi vent’anni, la prima nel 2008), ma perché in effetti il suo lavoro principale è quello di produttore. Un titolo su tutti: Full Monty, 1997, regia di Peter Cattaneo, con Robert Carlyle, svariate nomination e un Oscar (colonna sonora), un successo commerciale internazionale. Dal 1999 al 25° posto della classifica del British Film Institute dei migliori cento film britannici del XX secolo.

A sentire lui, in realtà, non sarebbe neanche un bravo produttore. Dice, per esempio: «Non riesco mai a trovare i soldi al momento giusto».

Sarà. Sta di fatto, però, che Itaca. Il Ritorno avrebbe voluto produrlo anziché girarlo, poi per ragioni varie l’accordo non è andato in porto né con Bertolucci né con Oliver Stone, intanto c’era la disponibilità, ovviamente irrinunciabile, di Ralph Fiennes e Juliette Binoche e, quindi, dietro la macchina da presa si è messo lui, anche perché a quella sceneggiatura ci girava attorno da trent’anni.

  • Controprova non c’è… chissà cosa avrebbero fatto altri, ma dopo averlo visto difficile immaginare qualcosa di diverso e di meglio di Itaca così com’è, con la sua regia. Alla prima in sala con il pubblico, il dibattito è serrato, affiancato da Enrico Magrelli, Uberto Pasolini è gioviale, molto coinvolto e attento a cogliere ogni sfumatura degli interventi ma è inattaccabile la sua ritrosia antiretorica o understatement, come dicono in Inghilterra, sua seconda patria.

Fioccano i complimenti e lui li stempera così: «I film sono come i figli. Uno li difende sempre, guai a chi ne parla male, ma poi, dentro di te ne vedi i limiti, i difetti… Insomma, hai uno sguardo critico».

Dal cinema a casa c’è un bel pezzo di strada, il cielo è sereno, fari e lampioni puntellano il buio, il traffico scorre tranquillo, in macchina si sta comodi come in sala, il dibattito continua… fra me e mio figlio. Il film è piaciuto molto ad entrambi. Di Uberto Pasolini conoscevamo tutti e due Still Life (2013) e Nowhere Special (2020), ci manca Machan, il primo.

Parliamo, parliamo e, infine, dissentiamo dal regista e concordiamo fra noi. Hanno uno stile inconfondibile, i film di Uberto Pasolini, tanto i primi di ambientazione contemporanea, nati da suggestioni di cronaca, quanto quest’ultimo di impronta storica e letteraria. Insomma, a dispetto di quanto dice l’interessato, forse una poetica c’è, volendo azzardare un parolone, usato con leggerezza ironica anche da Magrelli.

  • In ogni regia di Uberto Pasolini c’è un rapporto molto stretto fra rarefazione degli elementi in gioco e forza d’urto emotiva delle immagini. Questo lavoro di sottrazione e depotenziamento di tutto ciò che è attorno al tema della storia, che ne è corredo e supporto, in Itaca raggiunge il livello massimo della spoliazione. Tutto è ridotto ai minimi termini ed ogni cosa ricondotta alla sua essenzialità primigenia. Non costumi, ma panni di pochi colori variamente indossati. Il paesaggio dominato dal mare nella sua impetuosità dirompente o straniante limpidezza. La terra sovrastata dalla nodosa autorevolezza degli ulivi. E poi i massi ciclopici della reggia. Le capanne di misere frasche. Poco altro.

Con un contesto così scarno e netto si familiarizza facilmente. L’attenzione, quindi, si concentra sul resto e trova l’interpretazione magistrale di due grandi in assoluto stato di grazia espressiva, che anche se stessero zitti direbbero tanto. Le battute, invece, ancor più nella stringatezza dell’inglese, sono colpi di maglio che ti rimbombano dentro. Il testo – dice Uberto Pasolini – è il più vicino possibile all’originale omerico con, però, contaminazioni ricavate da testimonianze di reduci americani dal Vietnam.

  • Il punto del film, infatti, è questo: lo sconquasso identitario della guerra. L’Ulisse di Itaca è un reduce che ha smarrito se stesso. Non lo riconoscono gli altri e non si riconosce egli stesso. Si nasconde perché non sa cosa dire ai suoi sudditi. Il regno è in rovina. Telemaco gli rinfaccia i compagni perduti. Penelope le violenze. Non c’è onore, non c’è gloria, in guerra non ci sono vincitori. Itaca è il racconto di un uomo che deve ritrovarsi, di una famiglia che deve ricompattarsi. Ci riusciranno? Come? A che prezzo? Non basterà certo liberarsi dei Proci.

Quali che siano le storie che racconta, sfrondandole da ogni contingenza, Uberto Pasolini riesce sempre ad arrivare a sentimenti umani universali mostrandone tanto la forza e la persistenza quanto la fragilità. Tu chiamala, se vuoi, poetica. Oppure no. Tanto non cambia nulla, quel che conta è ciò che resta e la conclusione del nostro dibattito privato in auto è che con Itaca. Il Ritorno Uberto Pasolini ha arricchito un mito.

Itaca. Il Ritorno di Uberto Pasolini con Ralph Fiennes e Juliette Binoche