È stata solo un’illusione ottica. La stella della rivoluzione cinese ha smesso di brillare prima ancora di accendersi. Yan’an, 1942. Intellettuali e potere. È scontro. Prima sotto traccia, anestetizzato da foto di rito e sorrisi ipocriti. Poi frontale. Cruento. Una storia già vista. Una storia sbagliata. La storia di sempre.

Ai Weiwei, Mille anni di gioie e dolori, sottotitolo Memoir. Un libro splendido. Imperdibile. E non c’entra nulla che l’autore sia uno dei più grandi artisti contemporanei.

Memorabile, nel 2016, la retrospettiva Libero a Palazzo Strozzi, Firenze, con i ventidue gommoni di salvataggio arancioni sulla facciata. Ai Weiwei, un visionario, degno erede di Duchamp. Un’icona della dissidenza e delle battaglie per la libertà d’espressione: «Per esprimersi serve un motivo, ma esprimersi è il motivo».

Mille anni di gioie e dolori è a tutti gli effetti un romanzo storico. Di più. Epico. Dal feudalesimo al comunismo o capitalismo di stato. Una civiltà e l’altra nelle trecentosessanta pagine di Ai Weiwei scorrono con la quieta e ineluttabile maestosità di una scrittura limpida, corposa e viva come fiume che va verso la foce.

Mille anni di gioie e dolori nella prima parte è la storia del padre dell’autore, Ai Qing, «il principe dei poeti cinesi», secondo la definizione di Pablo Neruda, suo amico. Nel 1942 la Cina era ancora in gran parte occupata dall’esercito giapponese. Punto d’arrivo della Lunga marcia nella contea nordoccidentale dello Shaanxi, Yan’an era la roccaforte del Partito comunista. Delusi dalla politica del governo nazionalista, a Yan’an erano confluiti in massa gli intellettuali di sinistra «ma una volta lì essi si resero conto che il Partito comunista non era immune dalla corruzione e da tattiche arbitrarie e autocratiche, e il malcontento cominciò a crescere… (anche per) l’oppressione silenziosa subita dalle donne in quella comunità apparentemente progressista».

Mao sembra attento alle ragioni degli intellettuali. Convoca un convegno per chiarire le reciproche posizioni. Il 2 maggio iniziano le Conversazioni di arte e letteratura di Yan’an. Le aspettative sono tante ma Mao le stronca subito: «Per sconfiggere il nemico dobbiamo fare affidamento soprattutto su un esercito armato ma questo da solo non basta: dobbiamo avere anche un esercito culturale». Letteratura e arte dovevano obbedire al Partito come i soldati agli ordini dei generali.

Ahi ahi, Ai Qing, altro che: «Uno scrittore non è un’allodola, né una ragazza il cui compito è quello di gorgheggiare melodie per intrattenere il suo mecenate…  La creazione artistica può dare impulso alla missione di riforma sociale solo se nasce da uno spirito libero e indipendente». Gli intellettuali furono inquadrati come «lavoratori della letteratura e dell’arte» in un’organizzazione di massa guidata dal Partito che li avrebbe aiutati ad essere vicini al popolo e ad abbandonare la critica sociale per dedicare più tempo all’autocritica. L’opportunismo scalzò la creatività, risultato: «una mediocrità stantia».

Chi non sopportò l’umiliazione si suicidò, altri furono giustiziati (Wang Shiwei, 1947). Nel 1957 partì la Campagna antidestra, poi un Movimento di rettifica. I servizi segreti del Partito frugarono pesantemente nelle storie personali perché «le spie erano comuni come i semi di canapa». Dei trentamila funzionari e studenti di Yan’an, almeno la metà fu accusata di spionaggio.

A diciannove anni Ai Qing aveva soggiornato a Parigi per studiare arte, lì  aveva scoperto la poesia. Nel 1930, quando seppe che Majakovskij si era ucciso, cadde in depressione come se avesse perso un amico caro. Dopo Yan’an con vicende alterne per un po’ resistette ai vertici delle istituzioni culturali. Poi, la persecuzione e l’esilio. Nel 1967 gli attivisti radicali della Rivoluzione culturale gli tributarono la gogna per strada con il berretto da somaro. A maggio insieme al figlio di dieci anni – Ai Weiwei, l’autore del libro – fu deportato ai margini del deserto di Gurbantünggüt, nella Cina nordoccidentale, in un posto chiamato Piccola Siberia. Per quattordici mesi la loro casa fu una buca nella terra e la rieducazione di Ai Qing spalare le latrine.

È l’orrore dei gulag, né più né meno. Il racconto di Ai Weiwei ha la straziante e implacabile serenità di uno sguardo dall’alto che tutto vede e nulla perdona ma ad ogni cosa riesce a dare il giusto valore. Non è questione di buoni e cattivi, noi umani siamo tutti pessimi, ma la pratica dell’arte a chi la vuole dà – per statuto – la possibilità di sentire gli altri, soprattutto quando sono in una condizione estrema di sofferenza e oppressione. Leggendo Mille anni di gioie e dolori sembra di scorrere pagine di Vita e destino di Grossman. Stessa pietas.

Il potere, invece, per lo più immeschinisce: «Grazie al meticoloso lavoro di potatura di mio padre, dopo alcuni mesi il bosco intorno alla nostra unità produttiva nella Piccola Siberia aveva un aspetto più gradevole e attirava addirittura sguardi di approvazione. La dirigenza si rese conto in ritardo che era stato un errore permettere a un “destrorso” di abbellire l’ambiente, poiché il compito non si era rivelato adeguatamente punitivo. Così, per rendergli la vita ancora più amara, lo assegnarono alla pulizia delle latrine».

Un vero artista conosce il proprio il proprio destino come un profumo, lo conosce con la chiarezza ambigua di un oracolo e quindi – al tempo stesso – lo precorre e lo insegue: quale che esso sia, perché sa che nel suo compimento è la propria ragion d’essere. I grandi non si negano alla vita, ma lasciano che essa gli esploda dentro.

Ai Qing ben presto aveva capito cosa gli avrebbe riservato la nuova epoca del fido Mao – a cui con vaga speranza a Yan’an aveva affidato le sue riflessioni su intellettuali e potere – ma rimase ugualmente fedele a se stesso e la casa-buca sotto terra nella Piccola Siberia fu l’inattaccabile trincea di quell’idea mai doma che senza giustizia e libertà arte proprio non ce ne sta. Mai e da nessuna parte perché «Tutto è arte, tutto è politica».

parte prima – continua

 

 

Epoca, poesia di Ai Qing del 1941 (pagg. 80-81)

 

In piedi sotto le basse grondaie

Guardo con soggezione le nude montagne

E il cielo infinito

Alla fine sento che un miracolo accade,

Vedo qualcosa che brilla luminoso come il sole

E mi allieta il cuore.

 

Battendo all’impazzata il mio cuore continua a rincorrerlo

Come uno sposo che si affretta alle nozze

Anche se so che ciò che porta non è il buonumore festoso

Né l’allegria di una vaudeville,

Bensì uno spettacolo più crudele di mille macelli.

Eppure continuo a precipitarmi

Con tutta l’ansia di cui è capace una vita.

 

Nessuno potrebbe soffrire più di me.

Sono fedele all’epoca e vi dedico la mia vita, ma taccio

Contro la mia volontà, come un prigioniero,

Mentre senza parole vado all’esecuzione.

 

La amo più di qualsiasi cosa abbia mai amato.

Per il suo arrivo, sono disposto a dare la vita,

Rinunciando a tutto, dal corpo all’anima.

Davanti a essa appaio così insignificante,

Sono persino disposto a sdraiarmi a terra a faccia in su

E lasciare che i suoi piedi, come gli zoccoli di un cavallo, mi calpestino il petto.

 

Ai Weiwei, Mille anni di gioie e dolori, Feltrinelli, 2023