Mille anni di gioie e dolori da pagina 136 in poi è un romanzo di formazione, tipo Ritratto dell’artista da giovane (1917), ma in prima persona, senza alter ego. E sia chiaro: l’accostamento non è profanazione. Joyce – siamo sicuri – apprezzerà quest’insolito asse fra Dublino e Pechino. Altrettanto Weiwei, perché la rivoluzione linguistica dell’Ulisse (1922) è pari a quella della celebre Fontana (Urinoir, 1917) e delle altre opere ready-made (riciclaggio artistico di oggetti di uso comune) del suo adorato Duchamp.

Ferite, spaesamento, un lampo, ansia di libertà, talento, educazione, esperienze, curiosità, ricerca, intelligenza, istinto, insofferenza, coraggio, caparbietà, prontezza, disincanto e chissà cos’altro. L’arte non è tracciabile. È un totale maggiore della somma delle parti.

Nella storia di Ai Weiwei il primo passo è il fuoco. Estate 1966, è ormai iniziata la Rivoluzione culturale lanciata da Mao con la famosa messinscena mediatica (16 luglio) della nuotata di sessantacinque minuti nello Yangtze a Wuhan e la successiva dichiarazione Fuoco sul quartiere generale. Le guardie rosse irrompono nella casa di Ai Qing, mettono a soqquadro, perquisiscono, gli stracciano poesie e pezzi inediti.

La casa è piena di libri di arte e letteratura: vergini dorate, stampe delle acqueforti di Rembrandt, edifici e statue del periodo classico e rinascimentale, raccolte di poesie di Whitman, Baudelaire, Majakovskij, Lorca, Hikmet, incisioni di Picasso in un volume di poesie di Paul Eluard, prime stampe cinesi rivoluzionarie in xilografia e tradizionali decorazioni di carta. «Fin da piccoli sapevamo che questi libri significavano molto per papà, perché ogni volta che ne parlava il suo volto si illuminava. Ma ora, nel clima attuale, ogni fibra delle loro copertine rappresentava un pericolo. Dopo varie irruzioni in casa da parte delle Guardie rosse, papà decise di bruciare tutti i suoi libri, e io lo aiutai. Li accatastammo accanto a un falò, e poi li lacerai a uno a uno, strappai le pagine e le gettai nel fuoco. Come fantasmi si contorcevano e venivano inghiottiti dalle fiamme.»

Poi l’inesplicabile magia della possessione estetica: «Quando furono diventati cenere, una strana forza si impadronì di me. Da quel momento in poi quella forza avrebbe gradualmente esteso il suo dominio sul mio corpo e sulla mia mente, fino a maturare in me in una forma che anche il nemico più forte avrebbe trovato minacciosa. Era un impegno che prendevo con il raziocinio e il senso della bellezza: cose inflessibili, che non accettano compromessi e che resistono a qualsiasi tentativo di sopprimerle».

Il fuoco ferisce. Il fuoco brucia. Il fuoco tempra. Il secondo passo nella storia di Ai Weiwei è… l’America. 9 settembre 1976 muore Mao. Viene liquidata la Banda dei quattro. Le lotte per la successione fra le varie fazioni del partito inducono alla speranza. Ai Qing viene riabilitato. Il 25 novembre 1978 una sua poesia che celebrava le proteste di piazza Tien’anmen dell’aprile di due anni prima riscuote un fragoroso applauso da una folla enorme nello Stadio dei lavoratori di Pechino.

Sembra il momento giusto per affondare il colpo. Firmandosi Meccanico n. 0538, con un dazibao nel centro di Pechino ci prova un elettricista ventinovenne, Wei Jingsheng, diventato pensatore e scrittore. Chiede   democrazia: «Senza questa modernizazzione le altre non sono che una menzogna». Per i quattro mesi successivi su quel muro, alto tre metri e mezzo e lungo quasi ottanta, con tanti variegati dazibao come pezze a colori di uno sgangherato arcobaleno sventolerà la bandiera della libertà. Ai Weiwei, ventenne, ci crede, s’infervora, partecipa. Poi finisce come a Yan’an. Wei Jingsheng viene processato e condannato. Cala il buio sul Muro della Democrazia. «Giurai a me stesso che me ne sarei andato non appena ne avessi avuto l’occasione».

L’arte è una vena carsica. Corre sottotraccia. Che ci sia non si sa. Finché non la vedi. Appare all’improvviso. Ma non a caso. Cosa ne alimenti il cammino, chissà. Certamente, però, fondamentali sono alcuni snodi di fedeltà quando, pur senza una meta, se non molto vaga, «raziocinio e bellezza», un artista sente di dover andare di qua anziché di là. Senza compromessi. Costi quel che costi.

«L’11 febbraio 1981 mia madre mi accompagnò all’aeroporto». Le trenta pagine che raccontano i dodici anni a New York sono l’anatomia dell’irrequietezza di Ai Weiwei. Lavoretti occasionali, alloggi precari, corsi di qua e di là, ozi abbondanti, vigili e operosi, frequentazioni artistiche varie, qualche scatto, alcune partecipazioni a mostre collettive ma, soprattutto, aria di libertà respirata a pieni polmoni e stipata molecola per molecola in ogni alveolo.

Il terzo passo è la tradizione. Nessun successo a New York. 1993, si torna a casa. «Weiwei – dice la mamma alle amiche – è lo stesso ragazzo di prima che andasse in America.» Invece no. Fra i coetanei a Pechino è una leggenda per le sue avventure newyorkesi e come un medico della tradizione a tutti dispensa lo stesso consiglio: non cercate di piacere, siate voi stessi.

Guidato dal fratello minore, Ai Dan, gira per i mercatini di antiquariato e scopre la bellezza dell’arte classica cinese. «Per far conoscere ad Ai Dan la funzione di scatto continuo di una delle mie macchine fotografiche gli feci riprendere gli ultimi istanti di un vaso di terracotta della dinastia Han mentre mi cadeva dalle mani. Sarebbero passati dieci anni prima che quelle fotografie venissero esposte in una mostra. Quel gesto capriccioso e folle fu solamente una delle mie tante stravaganze. L’arte si nasconde nei luoghi oscuri della mente e spesso la trovo dove gli altri non guardano; per me è solida e autentica come quel mucchietto di cocci di terracotta».

Ancora: «Tempo dopo escogitai un altro modo di usare una giara Han di terracotta. Questa aveva proporzioni classiche, una forma piena ed elegante, ma sembrava mancare di qualcosa, e dopo averci dipinto sopra il logo della Coca-Cola la trovai decisamente più grintosa. Due anni più tardi un appassionato d’arte svizzero venne a trovarmi e quando la vide seminascosta in un angolo non riuscì a credere ai suoi occhi».

E poi e poi, poi come il Dedalo di Ovidio e di Joyce anche Weiwei «Et ignotas animum dimittit in artes», Metamorfosi, VIII, 188. Senza compromessi. Costi quel che costi. Anche la galera, come nel 2011. «Ero al corrente del rischio, ma ciò non mi impediva di fare quello che dovevo fare.»

parte seconda – fine

 

PS. Il vento dell’Est per chi scrive un tempo era solo un’ingenua canzone d’amore (Gian Pieretti, 1966) e successivamente l’auspicio di una generosa ma sciocca e sanguinosa illusione rivoluzionaria. Domani il vento dell’Est potrebbe essere sinonimo dell’Armageddon tra Stati Uniti e Cina che alcuni generali americani prevedono tra il 2025 e il 2027 con epicentro nell’isola di Guam (quella del giapponese nascosto nella foresta che credeva ci fosse ancora la guerra) mentre i vertici di governo di Stati Uniti, Regno Unito e Australia ritengono più probabile il 2050, scintilla sempre la Sarajevo-Danzica Taiwan (Corriere della sera, La lettura, domenica 7 maggio 2023, Manlio Graziano). Imagine (parole e musica di John Lennon e Yoko Ono, 1971) se, invece, il vento dell’Est fosse quello e solo quello dell’arte di Ai Weiwei e di tanti altri come lui che da un continente all’altro inseguendosi con la loro arte si confrontano e si confondono in un arcobaleno di forme e di colori. Forse siamo dei sognatori ma non gli unici.

 

Ai Weiwei, Mille anni di gioie e dolori, Feltrinelli, 2023