La morte – ha detto e scritto Pier Paolo Pasolini – è come il montaggio: dà senso alla vita. Ciò che fino a quel momento è «sospeso e pertanto ambiguo» con la morte acquista un senso.
Allo stesso modo il montaggio conferisce ad un film quel senso narrativo disseminato fra riprese fin lì semplicemente accatastate secondo criteri di economicità (e ancora inerti sulla pellicola come i tasselli di un puzzle prigionieri in un sacchetto).

È il montaggio che fa la differenza fra il cinema e la televisione. Come dire: fra la vita e la morte.
La televisione «non esiste», la sua equiparazione fra immediatezza e verità è la negazione dell’arte che è, invece, «composizione», montaggio.

Per esempio, dichiarò Pasolini: io vado prima ad intervistare uno straccione che mi parla delle sue atroci esperienze, successivamente intervisto un cardinale. È dal montaggio che scatta il significato, il senso della verità bruta. Altrimenti l’intervista non ha significato.

  • Nella morte è la grandezza dell’uomo, la sua «epicità» il suo «mito». Pasolini lo dice proprio in una delle prime interviste sul cinema, parlando di Mamma Roma. Ricorda, infatti, in quell’occasione, la fastidiosa presenza in una trattoria romana qualche giorno prima di tanti imbecilli e donne insopportabili ed eleganti, e uomini ricchi e odiosi. Eppure – dice – sentivo che erano, comunque, «grandi» perché mortali: «L’unica grandezza dell’uomo è la sua tragedia: se non ci fosse questa saremmo ancora alla preistoria». Il cattolicesimo di Pasolini è il riconoscimento in quella religione di questa sensibilità tragica. La sua promessa di una redenzione è ciò che, invece, lo allontana da essa: «C’è soltanto la morte, ma non l’aldilà».
  • Non neghiamo, dunque, a Pasolini la «sua» morte. Non è indifferente per la sua vita se ad ucciderlo è stata la violenza cieca di un ragazzo infastidito da certe proposte che andavano al di là dei patti precedenti o, invece, più mani in qualche modo armate da un Palazzo imbestialito dalle denunce del proprio malaffare.

Quando muore un poeta finisce un mondo, e di poeti ne nascono due o tre in un secolo, disse Moravia con voce rotta ai funerali dell’amico. Fare chiarezza è, quindi, un dovere civile. Non è tollerabile che sulla morte del poeta italiano più grande della seconda metà del Novecento sia stata svolta un’inchiesta così approssimativa e sciatta.

Il 3 marzo scorso è stata depositata presso la procura di Roma un’istanza per la riapertura delle indagini sull’omicidio del 2 novembre 1975. È bello che questa nuova richiesta di verità venga da due uomini di cinema, il regista David Grieco e lo sceneggiatore Giovanni Giovannetti.

Noi intanto tributiamo a Pasolini questo modesto omaggio, che è poi solo un montaggio di sue dichiarazioni sul rapporto fra cinema e letteratura raccolte dal Meridiano Mondadori sul cinema, uno dei dieci complessivi sull’opera di Pier Paolo Pasolini curati da Walter Siti. Nella nostra “composizione”, però, esse dimostrano che  – chiunque l’abbia ucciso – la sua morte tragica è stata il destino inevitabile di quell’amore impossibile per la realtà di cui la passione per il cinema era l’espressione più alta.

Tradito dalla realtà, tradito dal cinema: i suoi amori. Pasolini è morto come in un film. In un brutto film. Una macchina gli ha schiacciato il cuore facendoglielo esplodere. Pino Pelosi, quella sera, in una sala vicino piazza dei Cinquecento aveva visto con gli amici A tutte le auto della polizia in cui c’era esattamente una scena come quella.

La più consueta modalità di rapporto tra cinema e letteratura è che il primo attinge storie dalla seconda. Sappiamo bene, infatti, dei copiosi e continui travasi di romanzi in film…

Ebbene: Pasolini no. Aveva a disposizione i propri romanzi (Ragazzi di vita e Una vita violenta, rispettivamente del ’55 e del ’59) ma quando ha esordito alla regia nel ’61 lo ha fatto con Accattone, un’altra storia, per quanto affine a quelle già scritte. Una sceneggiatura originale, dunque, come l’anno successivo quella di Mamma Roma con Anna Magnani. Ha lasciato, quindi, Pasolini, che da un proprio romanzo (Una vita violenta) altri ricavassero un film.

Perché? Perché Pasolini ha evitato “la via breve” –  cui nessuno scrittore resiste – di un esordio alla regia attraverso la riduzione cinematografica di un proprio romanzo? Perché – disse – «una cosa non può nascere due volte», la regia non è una semplice «messa in scena», un film non è «l’applicazione di un’altra espressione su una cosa già raggiunta…».

Girare un film, dunque, per Pasolini era «esattamente come scrivere». L’una cosa escludeva l’altra: una storia poteva nascere in un modo o in un altro ma egli o la girava o la scriveva e dal ’61 la prima forma di racconto (quella cinematografica) scalza sempre più l’altra. Innegabilmente.

In un’intervista del ’67 a “Filmcritica” Pasolini, infatti, dichiara che il cinema ha una sua lingua specifica («da descriversi sia semiologicamente che grammaticalmente») e «questo – continua – è già un motivo che spiega perché io ho continuato a fare del cinema abbandonando la letteratura». Si riferisce alla narrativa.

Dopo la compiutezza dei primi due romanzi, le “nuove” narrazioni pasoliniane sono, di fatto, dei cantieri (comunque) aperti: e cioè, riavviati (Amado mio…), riconfigurati (Alì dagli occhi azzurri…), incompiuti (Petrolio…). Dal ’61 in poi la creatività narrativa di Pasolini è nel dominio prevalente dell’immagine. Ma quest’arco cronologico è solo il picco di un’onda lunga, che viene da lontano.

In un incontro con gli studenti del Centro Sperimentale di cinematografia di Roma, Pasolini racconta: «Accattone appare come la mia prima opera cinematografica a chi non conosca completamente la mia biografia dall’interno come la conosco io… ma io in realtà, quando avevo la vostra età e studiavo a Bologna, amavo moltissimo il cinema e avevo già in testa di venire proprio qui al Centro Sperimentale. Poi invece è venuta la guerra e ho dovuto rinunciarvi. La mia passione per il cinema è uno degli elementi di formazione culturale biografica più importanti e quindi è tutta una vita che io penso, in fondo, al cinema…»

Ebbene: a spingere Pasolini verso il cinema, da sempre, è il suo amore per la realtà. La sua fame di realtà. La sua voglia di essere nel vivo delle cose. Dentro il loro accadere.

La lingua scritto-parlata si basa su dei segni che evocano la realtà e che funzionano come tanti «campanelli di Pavlov»: quando pronuncio la parola «sedia» suona un «campanello di Pavlov» per cui a chi ascolta viene in mente una certa sedia che ha ben sperimentato. Il cinema invece esprime la realtà con la realtà… io amo il cinema perché con il cinema resto sempre al livello della realtà. È una specie d’ideologia personale, di vitalismo, di amore di vivere dentro le cose, nella vita, nella realtà… esprimendomi con il cinema io non esco mai dalla realtà, sono sempre in mezzo alle cose, agli uomini, a ciò che mi interessa più nella vita, cioè la vita stessa.

Il linguaggio utilizzato definisce in modo irreversibile l’identità di una storia, ne modella per sempre il profilo. Realizzare un film per Pasolini è dare corpo a una visione. Quasi senza soluzione di continuità, come in un circuito virtuoso che comincia e finisce con la realtà. Scrivere un romanzo è, invece, illustrare l’immagine con le parole, spiegarla. Cinema e letteratura non sono vasi comunicanti, tra l’uno e l’altro c’è la barriera della metafora.

Nella sua prima intervista sul cinema, nel gennaio del ’62, Pasolini dichiara: «…l’unica grave difficoltà che uno scrittore deve affrontare per esprimersi “girando” è che nel cinema non esiste la metafora, mentre tutta la lingua scritta consiste praticamente in una serie di metafore, più o meno concentrate, più o meno rapide, ora lunghe come paragoni e similitudini, ora immediate. Al cinema tutto ciò non esiste… in un primo tempo ho avvertito questo vuoto, questa mancanza della metafora diretta, diciamo così, della metafora letteraria, della metafora come siamo abituati a concepirla correntemente; dopo però ho capito che questa metafora può essere recuperata attraverso una forma di espressione che la faccia scaturire nella testa dello spettatore, e questo è un meccanismo che è nuovo praticamente, e di cui io non mi ero reso conto, sino a quando non ho fatto personalmente del cinema. In realtà tutto il cinema consiste un po’ in questo, ed è una novità tale per me, che mi è ancora misteriosa… è una mia impressione più che altro: l’impressione di questa metafora ricreata non direttamente dall’autore ma fatta vibrare come un diapason nella testa dello spettatore». Non a caso, dunque, conclude che «rinnovando la tecnica ho rinnovato l’ispirazione, come spesso accade…».

C’è allora, tra le tante, quell’immagine stupenda di Ettore Garofalo – protagonista di Mamma Roma con lo stesso nome di Ettore – in carcere sul letto di contenzione dove morirà, dopo l’arresto per una sciocchezza. È, visibilmente, il Cristo del Mantegna e, perciò, fa «vibrare come un diapason nella testa dello spettatore» la metafora di un fiero e indomito vitalismo proletario vittima sacrificale della barbarie dei tempi nuovi. Al contrario dello scrittore, il regista non dice che Ettore è “un povero cristo”, lo mostra come tale. Non gli affianca il quadro di Mantegna, trasforma lui in quello. Il realismo di Pasolini non ha nulla a che fare con la neutralità documentaria del naturalismo, è sempre poeticamente orientato.

Del resto per Pasolini il cinema popolare è quello che «non cede niente a quello che si crede gusto popolare» e perciò egli invita ad evitare «l’equivoco romantico del popolaresco… perché non è di nessuna utilità, ma semplicemente attraverso esso si finisce per rifare il verso al popolo, cioè si fa un’opera demagogica».

parte prima – continua 

In apertura: Dino Pedriali 1975, Pier Paolo Pasolini, fotografia, collezione privata Foggia