Non è lecita alcuna lettura al ribasso della Leggenda del Grande Inquisitore. Tipo, una faccenda interna alla Chiesa o una semplice contrapposizione frontale fra il Bene e il Male. Una parola definitiva in questo senso è quella di Franco Cassano ne L’umiltà del male: «La storia narrata dall’Inquisitore rappresenta la radice che alimenta ogni potere». Di più, racconta «la dinamica del rapporto tra il potere e la debolezza degli uomini». Queste parole sono per noi un autorevole avvallo all’azzardo politico della lettura comparata Grande Inquisitore – Liss.

  • Non solo, il punto focale del testo di Franco Cassano è la solitudine dei numeri primi, ovvero delle avanguardie o di quanti a torto o a ragione si credono tali. Dunque, un impagabile, affettuoso e severo monito al campo amico di chi in buona fede lotta ritenendosi portatore sano di verità. Cassano illumina di luce meridiana i tormenti di Mostovskoj alle parole di Liss e fors’anche il silenzio del Figlio di Dio al cospetto dell’Inquisitore. Loro due più di tutti soffrono, infatti, il dolore di quel grave errore di valutazione e prospettiva (reale o presunto non conta, agli spiriti nobili basta il dubbio) che con slittamenti progressivi porta ad un isolamento male inteso come motivo di forza, ovvero conferma delle proprie buone ragioni che gli altri non possono capire oggi e capiranno un non meglio precisato domani. Caso mai, dopo adeguato trattamento pedagogico. Nel frattempo il potere abusa e il Male avendo diviso impera.

Scrive Franco Cassano con sontuoso e solare nitore meridiano: «È questo il punto più delicato ed importante dell’argomentazione dell’Inquisitore, la critica all’aristocraticismo etico di Cristo in nome di un amore per gli uomini più pieno e realistico, di un amore capace di tenere conto della loro debolezza, di non rimuoverla e condannarla, ma di venire incontro ad essa». Quindi cita questo passo della Leggenda: «Tu sei orgoglioso dei Tuoi eletti, ma con te ci sono solo gli eletti, mentre noi diamo la pace a tutti».

Ancora: «L’errore che il Grande Inquisitore rimprovera a Cristo è un errore di generosità nei riguardi degli uomini, un errore comune a tutti coloro che, mossi da una forte spinta ideale, si gettano impetuosamente in avanti, scoprendo poi dolorosamente non solo di non avere più amici alle spalle, ma di essere circondati dall’indifferenza se non addirittura dall’ostilità».

Infine: «Il magistero della Chiesa, spiega il vecchio, è il corrispettivo dell’insuperabile fanciullezza degli uomini, dell’impossibilità per essi di diventare liberi e autonomi. La Chiesa non li ha espropriati della loro autonomia, ma ha soltanto risposto alla loro richiesta di assumere su se stessa l’insopportabile onere della decisione».

Liss: «Io e lei dobbiamo capire che il futuro non si decide sul campo di battaglia. Lei ha conosciuto Lenin. Lenin ha creato un partito di tipo nuovo. È stato il primo a capire che il partito e il suo leader sono i soli a esprimere la volontà di un paese, e ha sciolto l’Assemblea Costituente. Come Maxwell pensava di confermare la meccanica di Newton e invece la distrusse, così Lenin, fondando il nazionalismo del XX secolo, era convinto di dar vita all’Internazionale comunista».

Cristo è stato tradito dalla Chiesa, Mostovskoj dal partito. Eterogenesi dei fini. Il Grande Inquisitore e Liss presentano all’uno e all’altro il conto della loro ingenuità. Oppure: Chiesa e partito hanno colmato un vuoto, corretto un errore. Che ci sia buona o cattiva fede, frode o onestà, non cambia nulla. Avverte Cassano, citando Montaigne: all’avversario bisogna riconoscere sempre le migliori intenzioni, solo così è possibile capire le sue ragioni profonde.

Allora, senza girarci troppo attorno: c’è o no una crepa nelle fondamenta delle cattedrali del Bene? Sì, e occorre molta attenzione perché non è crepa da cui entra luce. Tutt’altro. Ecco, infatti, come Mostovskoj si mette in pari con la coscienza dopo le bordate di Liss: «Odiando e sterminando certa gente, Stalin ha colto, lui solo, il segreto legame di fratellanza tra il nazismo e gli ipocriti che predicano una falsa libertà». Torniamo sempre allo stesso punto: la libertà vera è quella dei «dodicimila per ogni generazione», della razza, del partito, di una minoranza sempre più esigua…

«Anche coloro che perseguono il proprio bene personale cercano di ammantarlo di universalità, e dichiarano: Il mio bene coincide con il bene di tutti, il mio bene non serve a me soltanto, ma a ogni altro uomo. E facendo il mio bene, mi metto al servizio dell’umanità intera. In tal modo il bene che ha perso universalità – il bene di una setta, di una classe, di una nazione e di uno Stato – si veste di un’universalità mendace per giustificare la propria battaglia contro ciò che esso considera male». Così scrive Ikonnikov negli «scarabocchi» trovati a Mostovskoj e pretesto della convocazione notturna di Liss che puntualizza con sprezzo: «Io e lei siamo da una parte, dall’altra sono queste idiozie… Cosa c’entrano queste carte miserande? Cosa vuole che m’importi chi le ha scritte? Non è opera sua né mia, e questo lo so. Che tristezza…».

Eccole, allora, le parole miserande di Ikonnikov: «in quest’epoca buia di terrore e di follia insensata, quella bontà spicciola, granello radioattivo sbriciolato nella vita, non è scomparsa… quella bontà senza testimoni, piccola, illogica, fortuita, al di là del bene religioso e sociale, è eterna».

A ognuno le sue responsabilità. I roghi degli eretici (cento a Siviglia la notte prima della nuova apparizione di Cristo), la Shoah, il massacro dei kulaki e le Grandi purghe del Trentasette (da Grossman ripetutamente ricordate grondando dolore) hanno in calce indelebilmente scolpita nella Storia la firma dei responsabili.

A chi è da tutt’altra parte, però, Cassano ricorda che «è una lotta durissima quella contro il Grande Inquisitore: egli si è alleato con la debolezza degli uomini, la moltiplica e la usa come uno scudo contro i migliori tra essi. Per pensare di poterlo combattere con qualche successo occorre evitare di separare i dodicimila santi da tutti gli altri uomini, occorre non solo combattere, ma anche riconoscere e rispettare l’angustia dell’uomo, occorre tenere i collegamenti, evitare che le fila si allontanino troppo l’una dall’altra, è necessaria un’idea di perfezione e salvezza diversa capace di ospitare al suo interno quella debole e imperfetta creatura che è l’uomo… In altre parole chi ha a cuore la prospettiva dell’emancipazione, se non vuole precipitare nel disastro, deve imparare a fare i conti con la fragilità che caratterizza l’essere umano e non limitarsi a guardarla dall’alto». Altrimenti si imbocca il vicolo cieco della «pedagogia autoritaria» e si va a sbattere contro il nemico o, peggio, si finisce fra le sue braccia.

 

parte terza – fine

 

Franco Cassano, L’umiltà del male, Laterza, pagg. 94

Fëdor Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Einaudi, pagg. 1064

Vasilij Grossman, Stalingrado, Adelphi, pagg. 884

Vasilij Grossman, Vita e destino, Adelphi, pagg. 982