Do the clouds belong to the Earth?

(Appartengono le nuvole alla Terra?)

manifesto per una letteratura meridionale a trazione anteriore

In termini di analisi logica: cosa conta nell’opera d’arte, il moto da luogo o quello a luogo? La provenienza o l’arrivo? Per noi non ci si sono dubbi: privilegiare il primo momento è protezionismo e partigianeria o – tutt’al più – sociologia, antropologia. Il cammino critico è sempre a rovescio. Si parte dal risultato e, se quello è interessante, si risale alle origini. Fanno così gli scienziati che ipotizzano una verità, se ne innamorano e ci scommettono in laboratorio.

La letteratura meridionale non c’interessa in quanto tale ma per certi suoi esiti che per la loro assoluta, e comune, novità di linguaggio si sono imposti a livello nazionale in perfetta sintonia con quanto accade in altri ambiti, non solo il cinema ma anche la musica e le arti visive. Preliminarmente, però: conta ancora la geografia con la smaterializzazione dei luoghi nella rete? Appartengono le nuvole alla terra? E poi: su cosa, in realtà, noi scommettiamo con questo nostro manifesto?

Sostiene George Steiner in Vere presenze (Garzanti, 1992) che nella coscienza europea tra il 1870 e il 1930 si è consumata quella «rottura del patto» plurimillenario che attraverso la parola garantiva la verità del mondo. Questa lacerazione – egli dice – «è una delle poche rivoluzioni autentiche dello spirito nella storia occidentale e definisce la modernità stessa».

Secondo Steiner – quando Mallarmé afferma che l’unica legittimità della parola fiore è «l’absente de tous bouquets» – egli infrange in modo radicale «l’ordine del Logos», ovvero la tradizionale solidità del binomio nome-cosa, sancendo definitivamente per la nostra sensibilità che il predicato non coincide con l’essenza e che – tradurrà successivamente in fisica Heisenberg – «le relazioni tra questi due termini possono essere enunciate solo sotto forma di immagini e paralleli».

La letteratura meridionale, dunque, come tutta quella contemporanea, si definisce in rapporto al dato di fatto che la parola non ha più la forza semantica o potere di rappresentazione di un tempo e può dire ormai solo l’assenza del mondo. Le nostre parole oggi sono nuvole: hanno staccato l’ombra da terra.

A noi pare opportuno, quindi, parlare di trazione posteriore e trazione anteriore per distinguere fra una letteratura che – legata ancora a un’idea di totalità – riconduce la crisi in atto a una tragedia metafisica e un’altra che, invece, carbura le turbolenze ontologiche della modernità in nuove acrobazie o possibilità linguistiche e letterarie. Il primo modo delle parole-nuvole lamenta l’inconsistenza, il secondo ne ammira la libertà. Nel rapporto con la tradizione, per esempio.

La nostra scommessa è che la letteratura meridionale a questo livello abbia detto e possa continuare a dire cose importanti praticando con successo la contaminazione come terza via, alternativa tanto al rispetto formale e filologico quanto alla pura cancellazione della memoria per una riproduzione omeostatica dello spirito del tempo.

Forse la geografia conta ancora un po’, o meglio: ancora per un po’. La lentezza delle trasformazioni ingigantisce il passato. Lo rende quasi eterno e inappellabile e come un fato, quindi, a lungo esso ha pesato sull’arte del Sud. La spinta contrastante dell’omologazione – fortemente avvertita soprattutto dai più giovani – è però un urugano che ne mina continuamente l’autorità legittimando le più ardite scorrerie.

A noi interessa la pirateria di chi, per esempio, scippato il dialetto ai glottologi e alle filodrammatiche, non lo ostenta con volgarità decorativa ma lo usa in modo espressivo e straniante per inquadrare la complessità del presente, non certo per difendere una qualche nobile identità. È, dunque, nuova quella creatività in cui il dialetto convive con proiezioni cosmopolite e trend di colori acidi e stilizzazioni e spiazzamenti metafisici e musica elettronica e gerghi e iconografia metropolitana e dà voce indifferentemente a ironia, tragedia e lirismo… Una lingua antica, dunque, ma manipolata e a trazione anteriore per un confronto spregiudicato con asprezze e tensioni della modernità.

«Je est un autre»: questa affermazione di Rimbaud è l’altra colonna d’Ercole che, secondo Steiner, segna i confini della modernità. Io è un altro è un altro è un altro, è un’eco infinita che rimanda a un altrove irraggiungibile. La profezia di Rimbaud si è interamente compiuta. Viviamo in un ossessivo labirinto di citazioni, senza un centro familiare di gravità permanente. «Io non è più io – scrive Steiner – ma una nube di Magellano di energie passeggere sottomesse a un perpetuo processo di fissione».

Ricordi ed emozioni mediatiche –  installate come un programma dentro di noi – sono oggi il labile, fuggevole e mutante software della nostra identità: l’unico possibile, essendoci ormai definitivamente preclusa la tradizionale sponda di «una funzione autoriale in senso unitario e stabile».

La letteratura a trazione anteriore per noi è, dunque, quella che arricchisce e rimescola questo background, impedendo che la legittima e necessaria ricerca di una nuova idea di noi si chiuda troppo in fretta ripescando i soliti, noiosi e invadenti parenti prossimi, quali per esempio gli stereotipi folkloristici di una diversità meridionale intesa come una presunta e – purtroppo – misconosciuta integrità metastorica.

La letteratura a trazione anteriore per noi prescinde dai vecchi schemi della denuncia alta e impegnata dell’arretratezza economica e storico-culturale o del degrado civile: denuncia spesso ideologica e interessata, per lo più starata e comunque superata o fuori bersaglio.

La letteratura a trazione anteriore come la intendiamo noi rifiuta ogni sorta di monocoltura del dolore (più vicina alla scalogna che alla tragedia), ogni logoro e patetico primitivismo sentimentale che ancora una volta si tenta di imporre al Sud come sua specifica vocazione (o maledizione) produttiva in ambito narrativo.

La letteratura a trazione anteriore si sforza, invece, di dar conto dell’impatto della nuova realtà della globalizzazione sullo specifico sedimento ancestrale e in particolare sul costume giovanile. Per dirla (non a caso) con il linguaggio della TV, essa cerca di mandare in direttail cortocircuito esplosivo dell’incontro virtuale (molto virtuale, pure troppo) della provincia con il cuore dell’impero (o, meglio ancora, con un’apposita macchina narrativa (come nel famoso anello del CERN di Ginevra) cerca di provocare la collisione subatomica o interazione nucleare forte tra arcaicità e post-modernità.

La letteratura a trazione anteriore come la immaginiamo noi ha il candore incarognito d’un feroce e ingenuo disincanto perché cerca di dare voce a identità insofferenti e mutanti.

La letteratura a trazione anteriore – con la sua valenza dialettale, fisica e corporale, gioiosamente beffarda e ironica oppure sentimentale e tragica –azzera le gerarchie e ricombina gli elementi» (Tommaso Labranca, Cialtron Hescon) in una «cooperazione attiva… con i prodotti di consumo, in particolare quelli dei media: come spettacoli televisivi, film, musica, immagini della pubblicità…». Essa, dunque, entra «nel ventre della bestia e la esplora senza lasciarsi inghiottire o diventare una mera estensione dei suoi meccanismi operativi, ovvero il destino subito da Andy Warhol e dalla Pop Art» (McCaffery, Schegge d’America). La letteratura a trazione anteriore è trashendente.

Allora, forse, non è un caso che la nostra terra nel recente passato abbia prodotto copiosamente questo tipo di slancio artistico: perché più di altri noi abbiamo vissuto la caotica e lacerante ricchezza di un confine attraversato al tempo stesso da suggestioni e contraddizioni. Quando le antiche certezze non sono più sufficienti, si impongono nuovi linguaggi. Molti artisti meridiani hanno accettato questa sfida cogliendo nella sensibilità comune un’eguale disponibilità: dobbiamo fare tutti altrettanto. Grande è la confusione sotto il cielo, dunque la situazione è eccellente. Nulla è più sciocco che rimpiangere il vecchio ordine o disertare chiamandosi ideologicamente fuori dal corso delle cose.