Stalingrado di Vasilij Grossman è senza dubbio un capolavoro. Per varie ragioni. Prima di tutto la sua monumentalità storica. Stalingrado è la verità profonda (quella umana dei sentimenti) di una pagina fondamentale del nostro passato prossimo: la battaglia che dall’estate del 1942 oppose in quella città (oggi Volgograd) l’esercito tedesco a quello sovietico e rovesciò le sorti della guerra avviando la fine della potenza nazista.

Stalingrado, pubblicato per la prima volta in russo nel 1952, è di fatto la prima parte di Vita e destino: si conclude là dove comincia l’altro (settembre 1942) e con esso condivide i personaggi principali. È stato detto già di Vita e destino, vale ancor di più adesso: i due romanzi stanno all’invasione nazista come Guerra e pace a quella napoleonica.

Stalingrado ha avuto un cammino editoriale accidentato. Questa prima edizione italiana (traduzione di Claudia Zanghetti) è il frutto di una versione filologicamente accuratissima, grazie agli studi di Robert Chandler e Jurij Bit-Junan che hanno confrontato le varie stesure ed edizioni dell’opera e, quindi, riportato all’originale e ripristinato pagine manomesse o cancellate da interventi vari della censura.

Il romanzo comincia con l’incontro del 29 aprile 1942 a Salisburgo durante il quale Hitler comunicò a Mussolini l’attacco contro la Russia: «immane, tremendo e definitivo». Con pochi interventi di dettaglio psicologico Grossman scavalca l’ufficialità per dare con rigore impressionante la gerarchia e la dinamica dei rapporti fra i due dittatori. Subito dopo, l’altro estremo. Petr Vavilov, contadino in un kolchoz, vede la postina del paese venirgli incontro con una lettera e capisce che è stato richiamato alle armi. Seguono pagine ineguagliabili dell’addio di Petr al suo piccolo e povero ma irrinunciabile e adorato mondo. In seguito Vavilov assurgerà a misura eroica della «gleba terrestre» (il copyright è suo), la cui epica è il tema del romanzo.

Poi un momento intimo e conviviale in casa di Aleksandra Šapošnikova a Stalingrado. L’anziana signora ha invitato a una frugale cena parenti stretti e qualche amico per salutare il nipote Tolja diretto al fronte e di passaggio in città. Nel crogiolo affettivo di casa Šapošnikova riluce la forza morale del popolo russo. Dalle ramificazioni del nucleo familiare di Aleksandra Šapošnikovala, come a cascata da un albero genealogico, fluisce la possente coralità del romanzo con una naturalezza tale che quasi impedisce a chi legge di fare interruzioni. Stalingrado è un capolavoro perché questa ricchezza di personaggi, fatti e storie è tutt’uno con una minuta compiutezza figurativa. Quale che sia l’oggetto o il momento, ogni pagina è una rappresentazione del reale di sbalorditiva acutezza e precisione.

Stalingrado è opera profondamente radicata nel corpo vivo del popolo russo ma questa parzialità – sintetizzata nel ruolo da protagonisti del commissario Krymov – è come il punto di battuta dal quale l’atleta prende slancio per il proprio salto. Il romanzo di Grossman è un classico senza tempo sulla brutalità della guerra; sulla rapidità e radicalità dei mutamenti («era nato un mondo nuovo… senza precedenti: paragonabile a un’esplosione solare di potenza astronomica»); sulla forza che può dare ad ognuno «la consapevolezza del proprio scopo nella vita».

«Quello di frugare senza autorizzazione nell’animo altrui e di mettere in piazza tutto quello che ci trovano è un brutto vizio di molti». È una fortuna, invece, caro Vasilij, che lo abbiano fatto e lo facciano autori come te perché, quando si affonda nella loro umanità, le persone sono le stesse dappertutto: amano e soffrono alla stessa maniera. La guerra divide e uccide. La letteratura unisce e affratella. La semplicità di Stalingrado «tersa, placida e profonda ha in sé la verità dell’arte autentica» e ci aiuta a capire «la misura dell’uomo».

 

Vasilij Grossman, Stalingrado, Adelphi, 2022