Un Occidente prigioniero di Milan Kundera in poche pagine racchiude un tesoro, di cui il tempo ha accresciuto il valore, oggi per di più drammaticamente attuale. Bene, dunque, ha fatto Adelphi a raccogliere in volume i due scritti che costituiscono il libro: il Discorso al Congresso degli scrittori cecoslovacchi del 1967 e l’articolo che dà il titolo alla pubblicazione uscito nel 1983 sul prestigioso bimestrale francese Le Débat, che ha chiuso nel 2020 dopo quarant’anni e duecentodieci numeri.

Al di là del limite cronologico dei due scritti, nell”83 c’era ancora l’URSS, dei tormentati e complessi rapporti fra le varie parti della nostra Europa una e trina Un Occidente prigioniero non solo offre un rigoroso e agile quadro sinottico ma, soprattutto, un punto di vista netto, appassionato e inconfutabile che, per profondità di analisi, tocca un nervo scoperto del dibattito culturale contemporaneo.

  • Di Europa ce n’è tre. Parola di Milan Kundera. La prima è quella classica, che definiamo Occidente e si estende fino alla Germania, «legata all’antica Roma e alla Chiesa cattolica, segno particolare: l’alfabeto latino». All’estremo opposto la Russia, «connessa a Bisanzio e alla Chiesa ortodossa, segno particolare: l’alfabeto cirillico, dunque una civiltà altra». In mezzo «l’incerta zona di piccole nazioni strette fra Germania e Russia». La geografia unisce (l’Europa è una, dall’Atlantico agli Urali), i confini politici dividono (ma sono «inautentici, sempre imposti da invasioni, conquiste e occupazioni»), e allora: cosa definisce veramente l’identità e l’appartenenza di un popolo? Per esempio, di quale storia e civiltà si sente parte l’Europa centrale, ovvero i popoli di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia?
  • Kundera, dunque, afferma con risolutezza che Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia si sentono e sono da sempre parte integrante dell’Occidente: «Sin dalle origini, queste nazioni appartenevano alla parte dell’Europa radicata nella cristianità romana. Partecipavano a tutte le fasi della sua storia. Per loro la parola Europa non è un fenomeno geografico, ma una nozione spirituale, sinonimo di Occidente».

Chiuso con sentenza inappellabile il contenzioso storico-politico perché «l’identità di un popolo o di una civiltà si riflette e si riassume nell’insieme delle creazioni che solitamente definiamo culturali», tocca ora chiedersi quali sono questi valori comuni che, al di là di ogni contingenza, legano indissolubilmente  l’Europa centrale all’Occidente? E poi, soprattutto, sono oggi questi valori ancora vivi?

Nei Tempi moderni – dice Kundera – il Dio medievale ha ceduto il passo all’ego che pensa, dubita e, consapevole della propria inimitabile unicità, con le sue libere creazioni abbatte confini aprendo la storia a nuove ere progressiste. Così è stato, per esempio, per il Rinascimento e il Romanticismo. Questo, il valore fondamentale dell’Occidente condiviso dalle «piccole nazioni dell’Europa centrale». Questo, lo spartiacque comune con il «totalitarismo russo». Non s’è mai vista – continua Kundera – una sola nuova era progressista definita dai suoi limiti e solo «per bigotteria, vandalismo o ristrettezza di vedute» si può considerare una virtù la difesa delle frontiere anziché il loro superamento.

È il 1967, la vigilia della Primavera di Praga, e al Congresso degli scrittori cecoslovacchi Kundera si esprime così: «I vandali che incontro io sono tutti letterati, sodisfatti di sé… Il vandalo è la superba ristrettezza di vedute che basta a sé stessa. Questa superba ristrettezza di vedute crede che il potere di adeguare il mondo alla propria immagine sia un diritto inalienabile, e poiché il mondo è per lo più composto di situazioni che la spiazzano lo adegua alla propria immagine distruggendolo». Vandalo è il giovane che deturpa una statua, vandalo è l’intellettuale chiuso nelle proprie convinzioni come in una fortezza. Cultura, invece, sono «le grandi situazioni comuni che riuniscono i popoli, e li raggruppano in maniera sempre diversa, entro confini immaginari e sempre mutevoli, dove permangono la medesima memoria, la medesima esperienza, le medesime tradizioni comuni».

La vita culturale si intensifica, si acuisce e diventa il valore vivo intorno al quale tutto il popolo si stringe allorché la sua identità è mortalmente minacciata. Questa cultura è stata l’alimento di tutte le rivolte centroeuropee che: «Non erano sostenute dai giornali, dalla radio o dalla televisione, vale a dire dai media. Venivano preparate, innescate, attuate da romanzi, dalla poesia, dal teatro, dal cinema, dalla storiografia, dalle riviste letterarie, da spettacoli comici popolari, da discussioni filosofiche, dalla cultura insomma». Eppure – commenta Kundera – c’è chi crede che, se l’influsso della cultura è troppo schiacciante, allora le rivolte non possono essere davvero autentiche. Costoro pensano che «cultura e popolo sono incompatibili… L’idea di cultura si confonde ai loro occhi con l’immagine di un’élite di privilegiati».

Nello stesso intervento del 1983 su Le Débat, però, con lucidità di veggente Kundera pone una questione da allora sempre più evidente e grave: ma questa cultura, che o è popolare o non è, c’è o non c’è oggi? No, non c’è più: «L’Europa non sente più la propria unità come unità culturale». E allora: «In quale ambito si realizzeranno i valori supremi capaci di unire l’Europa? Le conquiste della tecnica? Il mercato? I media? (Il grande poeta sarà sostituito dal grande giornalista?) O la politica? Ma quale? Quella di destra o quella di sinistra? Esiste ancora, al di sopra di questo manicheismo tanto idiota quanto invalicabile, un ideale comune percepibile?… O dobbiamo vedere nell’abdicazione da parte della cultura una sorta di liberazione cui occorre abbandonarsi con euforia? Oppure il Deus absconditus tornerà per occupare il posto lasciato libero e rendersi visibile?».

La cultura ha ceduto il suo posto «all’istupidimento ideologico e giornalistico… A Parigi, persino negli ambienti colti, a cena si discute di trasmissioni televisive… Questa scomparsa della cultura a causa della repressione russa che, dopo la Primavera, a Praga vivemmo come una catastrofe, uno choc, una tragedia, a Parigi è vissuta come qualcosa di banale e insignificante».

Non resta, allora, che commuoversi con Kundera quando questi ricorda le ingenue parole di Franz Werfel che nel 1937 proponeva di fondare un’accademia mondiale dei poeti e dei pensatori perché sentiva il bisogno di «trovare ancora un’autorità morale in un mondo privo di valori». A meno che qualcuno non rincuori Kundera dimostrando che dal 1983 ad oggi le cose sono cambiate e che grandi pittori, drammaturghi e musicisti non sono figure marginali ma occupano di nuovo nella società il posto privilegiato delle autorità morali e la musica, l’architettura, la filosofia hanno di nuovo la capacità di forgiare l’unità europea. Sarebbe un sollievo per tutti.

 

Milan Kundera, Un Occidente prigioniero, Adelphi, 2022