Tributo a un grande, con un’intervista del 1998.

Sarà banale o di parte (fate voi) ma è così: chi ama la letteratura ama la vita e sa parlarne più e meglio di tanti incalliti libertini o pseudo specialisti in presunte scienze umane. Prova ne sia il nuovo libro di Pietro Citati in vendita da oggi in tutta Italia. L’armonia del mondo, questo il titolo dell’opera, non è dunque critica letteraria ma un canto libero sulla realtà quotidiana, sia esistenziale o antropologica che politica e sociale. Altro che isolamento e torre d’avorio dell’intellettuale chiuso nelle proprie stanze! «Tra un libro che finisce e uno che comincia, talvolta succede di uscire per strada, di camminare per i giardini pubblici della città…»: ad un occhio allenato sulle parole talvolta basta questa veloce interazione per distillare verità dalle pagine e parlare del proprio tempo con sapienza antica e grazia leggera e pervasiva. Come fa Citati.

«Da tanti anni – ci dice l’autore – scrivo cose non direttamente letterarie che in altri tempi si sarebbero chiamate moralità. Il modello inarrivabile di un libro come questo mio ultimo sono i Saggi di Montaigne, in cui si parla di tutte le esperienze della vita trascorrendo da un tema all’altro volubilmente e avvicinando tra loro argomenti molto diversi. Ne L’armonia del mondo, per esempio, io parlo di gatti e bambini, delle irradiazioni dell’infanzia sulla vita adulta, di conversazione e lettura, di come ci comportiamo con gli oggetti e poi soprattutto di morte e resurrezione ma anche del nostro carattere nazionale, di piccoli viaggi e infine di letteratura in generale.»

Da tempo, ad ogni nuova pubblicazione, incontriamo Citati nella sua casa ai Parioli, sempre ci accompagna la stessa ammirazione per quella sua impareggiabile capacità di leggere le cose in trasparenza e rendere chiaro e semplice ciò che a prima vista è oscuro e complesso. Non è questione di tecnica o di stile, è un modo particolare di sentire. La politica, per esempio.

«Per quasi duecento anni l’Italia ha rappresentato il volto umano della felicità. Per Stendhal, Chateaubriand, Taine e tutti i viaggiatori stranieri tra il Settecento e l’Ottocento – specialmente quelli francesi – l’Italia era il luogo della felicità. Poi alla fine del secolo scorso è accaduto qualcosa e quella luce si è spenta. Infine, come un evocatore di fantasmi, Mussolini ha tirato fuori dall’inconscio collettivo e concentrato in sé il peggio del nostro carattere nazionale: la cialtroneria, l’arroganza, il desiderio, il vanto fallico, la teatralità, la retorica, la mancanza di educazione e di discrezione. Il tipo italiano incarnato da Mussolini ha continuato per diversi anni e continua ancora adesso. Il bello è che quei vizi convivono con altrettante qualità – spesso opposte – del nostro popolo.»

– Quali?

«La discrezione, per esempio. La tradizione letteraria italiana è fatta di discrezione. Niente diari, niente lettere, un io sempre sfumato. Ma dicevo prima di quel senso quasi infantile di felicità, di esistere nella vita e godere nell’esibirsi nello spettacolo teatrale della vita che entusiasmava tanto Stendhal e i suoi contemporanei, gli italiani però sono anche un popolo che ha molto sofferto, che è stato passivo ed ha subito e nel nostro carattere – specialmente quello popolare – è forte questa capacità di imparare attraverso la sofferenza. Come anche il senso dei limiti. Un italiano non ama la tragedia o le grandi avventure del pensiero, pensa che la vita umana sia limitata e vive dentro orizzonti chiusi. Questo spiega perché il Romanticismo da noi abbia avuto un’eco limitata. D’altro canto, però, neanche un russo dell’Ottocento innamorato di filosofia tedesca può diventare così ubriaco di astrazioni come un italiano.»

– Siamo dunque un popolo complicato e contraddittorio ma forse è proprio questo che ci rende interessanti.

«Certamente. Anche oggi, infatti, esistono nel mondo molti innamorati dell’Italia. Perché francesi o tedeschi o inglesi vengono in Italia e ci stanno così volentieri? Non hanno alcun interesse per la nostra vita pubblica di cui non sanno nulla, amano invece il paesaggio e sentono nel popolo italiano qualcosa di questo paesaggio: sentono in noi una molteplicità di aspetti che altrove non c’è. Io credo di non esagerare dicendo che tutti gli altri popoli d’Europa sono molto più uniformi del nostro. Da noi ogni dieci chilometri c’è un cosmo diverso dall’altro.»

– Ma come si difendono queste differenze senza scadere in atteggiamenti rozzi e beceri?

«Si difendono silenziosamente, coltivandole e amandole. Questa vita occulta dell’Italia noi non la conosciamo, non siamo abituati a guardarla. Un giorno a Bergamo, dopo aver visitato una mostra di Baschenis, cercavo una libreria antiquaria che mi era stata segnalata in albergo. Il tassista, invece, sentendo dove ero diretto e capito il perché, mostrando un’insospettabile competenza in materia di pittura bergamasca, me ne indicò un’altra molto più fornita anticipandomi tutti i titoli che avrei potuto trovare. Questi episodi di cultura locale e amore per le cose da noi sono molto più diffusi che in altri paesi.»

– Niente paura, dunque, dell’omologazione, di questo spettro che s’aggira per il mondo insieme alla globalizzazione dell’economia?

«Ne parlava già Adorno negli anni Cinquanta ma ha avuto ragione solo in parte. È vero che tutto il mondo va in blue jeans e che in ogni luogo i ragazzi amano le stesse cose americane ma questa omologazione della superficie ha prodotto per contrasto una moltiplicazione delle diversità in profondità. Il mondo è come sempre pieno di follie, eccentricità, assurdità. Al di sotto degli eventi della storia la vita è divertente oggi come lo era cinquant’anni fa: divertente proprio per la sua infinita ricchezza di aspetti.»

E via allora! Come in una giostra medievale ci tuffiamo con Citati nel gran mare dell’essere per finire al galoppo la singolar tenzone roteando il giavellotto contro il fantasma della morte.

La scuola? «Quella italiana non è peggio delle altre, ed è sicuramente meglio di quella americana. Il guaio della scuola è di essere la scuola. L’educazione è un rapporto tra due individui e basta. Aristotele che insegna ad Alessandro: questo è il vero rapporto pedagogico. Il resto è un male necessario.» TV e giornali. «L’Europa è ormai senza riserve intellettuali, vive alla giornata. È necessario che accanto all’uomo che si occupa di notizie esistano anche lo storico e il metafisico che pensa alle cose che non verranno mai meno.» L’arte della dimenticanza. «Dobbiamo dimenticare per poter ricordare, come il personaggio di Proust. Quando la vita dimenticata ci riassale e viene di nuovo ricordata, ha una ricchezza infinitamente più grande che se noi l’avessimo sempre avuta presente nella memoria.»

La morte, infine. «Tutta la retorica ottocentesca dei cimiteri, delle tombe di famiglia, tutto questo oggi ha molto meno importanza. L’Ottocento in sostanza faceva violenza alla morte, impediva alla morte di essere morte. Noi invece la portiamo con noi stessi. Sappiamo di morire in ogni istante. La nostra vita è molto più intessuta di morte di quanto non fosse nel secolo scorso ed è quindi molto più fragile, molto più delicata e per questo molto più bella e commovente.»

 

Pietro Citati (Firenze, 20 febbraio 1930 – Roccamare, 28 luglio 2022)

Piero Citati, L’armonia del mondo, Rizzoli, 1998