Grande letteratura secondo noi è quella che riesce a dare immediata evidenza a metafore ardite facendo di situazioni estreme proficue occasioni di riflessione sulla condizione umana. Labirinto di Burhan Sönmez (traduzione di Nicola Verderame) è un romanzo così. La storia è semplice. Boratin, ventottenne, musicista blues di Istanbul di grande talento e bellezza, si risveglia un giorno in ospedale senza più alcuna memoria di sé. Gli dicono subito, e quindi apprendiamo, che si è buttato giù dal Ponte sul Bosforo. Per fortuna si è salvato ma per sfortuna ha perso la memoria o, viceversa, suggerisce un amico, per sfortuna si è salvato ma per fortuna ha perso la memoria. Se, infatti, fuggiva da una ferita, un dolore, un’inquietudine, perché tornarci forzando quel muro bianco che benevolo gli nasconde il passato?
Boratin ha tante cose nella testa a cui non sa dare un senso. Confonde i tempi. Non sa quando sia morta la Vergine Maria. I documenti gli dicono chi egli è, ma non cosa è, ed è questo invece che a lui interessa sapere. Boratin siamo noi. Alzi la mano chi, pur nel pieno possesso della propria memoria, non abbia sentito o senta, continuo e pungente, il bisogno di conquistare o ritrovare piena consapevolezza di sé. Il labirinto di Sönmez è quello della mente, in cui naufragare è al tempo stesso doloroso e dolce: «La mente è strana. Senza dirmi nulla mi tiene in pugno. Chi appartiene a chi? Io posseggo la mia mente, o è la mia mente a possedere me?». Non sono interrogativi di tutti?
- Labirinto è anche la suadente malia di Istanbul con la vitale fisicità soprattutto notturna di giovani e strade, caffè, concerti, librerie, piazze, monumenti, soffuse fragranze e colori saturi di nostalgia. Adagiata sul mare e sospesa fra due continenti, come dentro di sé Boratin e ognuno di noi sempre in bilico fra tante possibilità, Istanbul di Burhan Sönmez è un luogo dell’anima, ha l’incanto di un altrove teorico e plausibile, come la Lisbona di Antonio Tabucchi.
Giusto un esempio. È sera ormai inoltrata, Boratin è alla stazione di Hayadarpaşa, chiusa al traffico ferroviario ed ormai solo un’attrazione turistica, una sorta di luna park. Lui, però, non lo sa e dopo tanti anni che non ci torna pensa di prendere da lì il solito treno per casa, nel villaggio di Nehirce, a dodici ore da Istanbul. Orologio fermo alle 3:30, probabilmente l’ora dell’incendio che ha poi portato alla chiusura dello scalo: «Tiro su il bavero e mi stringo nel cappotto. Mi siedo sulle scale come uno che non ha un posto dove andare. Guardo al di là del mare verso la sponda opposta. Anche le cupole, i minareti e le torri dall’altra parte sono illuminati. Le due sponde di Istanbul hanno le stesse luci e si guardano. Chi si siede su una riva a osservare la gente sull’altra, può immaginare come appaia dalla direzione opposta. È come guardarsi in uno specchio lontano». E anche se certe notti vorrebbe prenderlo a pugni, tante volte nel romanzo Boratin si cerca in uno specchio così come nell’immagine del soprammobile con la Vergine che guarda il volto inanimato del figlio Gesù steso sulle gambe.
Boratin ha la grazia di un angelo caduto in volo. Lo dice anche il tassista nella sua testimonianza: si è buttato giù dal ponte e muoveva le braccia come se avesse le ali. Inevitabilmente, quindi, il nostro ricordo va a quel grandissimo del jazz che proprio così diceva di sé: come se avessi le ali. Di certo Boratin nel suo sorriso dolente ha un mondo nuovo, e forse proprio quello cercava al di là della morte. Al di là di una città «morta sotto la cappa di oscurità del suo antico fascino», al di là di un presente in cui un capo di Stato ha la testa indietro di cent’anni e si crede un sultano. Boratin, invece, con la sua musica voleva dare «voce al cielo… fondere il passato al futuro nel tempo presente… oltrepassare il confine del proprio limite».
Con Boratin e le sue inquietudini esistenziali e filosofiche, Burhan Sönmez ha dato vita a un personaggio all’altezza delle più grandi icone classiche della letteratura europea.
Burhan Sönmez, Labirinto, Nottetempo, 2019
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