Poco conta che sia autobiografica (come lasciano intendere certi incroci fra dati personali dell’autore e riferimenti narrativi) o d’invenzione (come avverte la nota iniziale) ma in ognuna delle oltre trecento pagine de L’animale notturno di Andrea Piva c’è vita e anche tanta: quella smodata dell’eccesso, della trasgressione, della droga, del sesso, del gioco d’azzardo.

C’è, insomma, senza soluzione di continuità, la forza straripante e catalizzatrice d’emozioni dell’eroe maledetto, grande e onesto nella sua sfida nichilista e rovinosa all’ipocrisia e all’opportunismo della quotidianità borghese. Senza andare lontano: c’è Bukowski e c’è Welsh. E c’è Roma, sia nell’imperiosa e decadente bellezza degli scorci notturni del centro e delle rutilanti feste dei “cinematografari” sia nella magia di certe albe sui Fori imperiali.

Vittorio, sceneggiatore, dopo il gran successo per un film subito di culto (La CapaGira nella realtà, AbraCalabria nel romanzo), scheggia impazzita nel panorama stantio della cinematografia nazionale, litiga sanguinosamente a suon di cazzotti e, quindi, rompe con il fraterno amico regista, imputandogli di aver abbandonato il comune sogno creativo per una lucrosa e banale scelta commerciale. Game over. Per Vittorio, fine, molto prematura, dei giochi con il cinema. A meno di trent’anni, una vita da reinventare. Decisione estrema: diventare ricco. Ma come?

Cominciano avventure picaresche a trazione anteriore: sesso, cocaina e poker. Texas Holdem, per la precisione, con l’approccio scientifico della statistica. Quel che conta, però, è che il romanzo è raccontato con la postura d’un classico. Il narratore ti chiama al suo fianco, come davanti ad un camino a fare insieme un bilancio della sua esperienza: reale o immaginaria che sia a questo punto non conta più.

Andrea Piva, L’animale notturno, Giunti, 2017