«Abbiamo tradito le parole… ed esse ora ci accusano», scrive Zeruya Shalev, autrice israeliana unanimemente riconosciuta dell’ordine di grandezza di Amos Oz e David Grossman. Il romanzo è Dolore.
Stanno litigando. Lei chiede qualcosa, ma per sapere altro. In realtà cerca di estorcergli informazioni su quel suo primo fidanzato che tanto tempo prima l’aveva abbandonata e nel loro incontro fortuito a distanza di anni neppure l’ha riconosciuta. Lui, il marito, non la ascolta. Comunque non risponde. È già nella sua stanza a giocare a scacchi con il computer.
A questo punto quella riflessione nell’ambiguità dell’indiretto libero. Non riusciamo più a raccontare i sentimenti. Usiamo le parole per nascondere, distorcere, svilire. È un limite del nostro tempo. In un’illusione di onnipotenza abbiamo smania di fare e pieghiamo tutto a un fine pratico. Alle parole chiediamo risultati, profitto, immediatezza di emozioni da spendere subito in qualche enfasi digitale. Così come a un viaggio chiediamo la velocità dell’arrivo, non il cammino.
Zeruya Shalev ci accompagna in un lungo viaggio nell’intimità di un dolore traumatico, nervoso. L’attentato di cui è stata vittima Iris, la protagonista, è di dieci anni prima. È stato tremendo ma evidenza fisica non ce n’è più. Il vecchio fidanzato che ritrova inaspettatamente è un medico del dolore. L’ha portata da lui il marito, Michi, cui era giunta voce della sua bravura. Iris, quarantacinque anni, madre di due figli, è preside in una scuola di Gerusalemme, è una donna decisa e realizzata ma di fatto il suo dolore è un ingorgo di paure e insoddisfazioni.
Nel porto sepolto della sua persona quell’immotivato abbandono giovanile di quand’era poco più che diciasettenne non è reperto archeologico o mina disinnescata dalla sofferenza già patita. È una domanda di senso, lacerante, che torna a squassarla. È una domanda di tutti, è la domanda di un popolo. È l’eco di quelle parole sulla croce, «Padre, perché mi hai abbandonato?», e di tutte le «separazioni che la natura ci impone, che segnano per noi il tempo della gravidanza, della crescita dei figli, della loro vita autonoma, a volte financo dell’amore». Ogni pagina o situazione di Dolore, come questa del distacco e dell’abbandono, spontaneamente si offre a una vertiginosa profondità di significati che chi legge sente immediatamente come propri.
Quando rivede Eitan, torna in Iris prepotente la passione di un tempo e quell’inesausta ricerca d’identità che era dolore diventa amore, lo stesso amore assoluto del tempo giovanile. Così lei spera. Non a caso memorizza Eitan sul cellulare con il nome di Dolore. L’intensità sentimentale della scrittura della Shalev, la sua sontuosa precisione d’introspezione inchioda con stupefacente immedesimazione al dilemma di Iris: quell’incontro imprevisto dopo trent’anni è il miracolo di una nuova possibilità («mi è capitato un miracolo, non posso mica rinunciare») o solo un’illusione («Oh Eitan, sospira lei, credevamo di essere degli dei, capaci di tornare al passato e rimediare agli errori»)? Fino a che punto è giusto rinunciare a una propria convinzione di felicità? Con lui sarei felice, però… Quali i limiti dell’amore? I doveri familiari? Come per Iris quello materno di ripresa di contatto sentimentale e recupero della figlia che si sta malamente perdendo al seguito di un cattivo maestro di Tel Aviv? «L’amore ha molte facce, a volte è staccato dalla vita, è come un aquilone senza filo, lo sai che vola in cielo ma non ci provi a prenderlo per non rovinare altre cose che sono più importanti per te.»
Il titolo del romanzo di Zeruya Shalev è Dolore ma noi lo possiamo memorizzare in rubrica alla A di Amore. Dolore è uno dei più bei libri contemporanei di domande sull’amore e pur senza darti risposte può essere che sull’amore ti cambi almeno un po’ la prospettiva, se lo leggi senza fretta: i sentimenti hanno bisogno di tempo e di cura… alle parole giuste, che scuotano dal torpore frenetico e sterile delle emozioni (anzi, degli emoticon), ci pensa Zeruya Shalev.
Zeruya Shalev, Dolore, Feltrinelli, 2016