«Un uomo è ciò che nasconde.» La frase è di Andre Malraux. La riporta in Damasco Suad Amiry, scrittrice e architetta nata a Damasco da madre siriana e padre palestinese, cresciuta tra Amman, Damasco, Beirut e Il Cairo. Oggi vive e lavora a Ramallah, dove dirige il Riwaq Center for Architectural Conservation.
Suad Amiry cita la frase di Malraux alla fine del romanzo. È il chiarimento di un passaggio doloroso di una storia famigliare di tre generazioni ma le parole non bastano a ricostruire la memoria: la madre che ha abbandonato la figlia – di questo si tratta – è poi andata davvero a cercarla? O questa voce è solo la perfida diceria di una donna invidiosa che vuole turbare la felicità di chi ha adottato quella bambina e con lei vive felice? Ma chi è davvero la madre di un figlio: chi l’ha partorito o chi l’ha cresciuto? Le parole che servono per chiarire sono nascoste chissà dove. Tocca alla letteratura dare voce a ciò che il tempo ha confuso e più nessuno sa. Tocca alla letteratura trovare le parole per dire una verità che non c’è.
Damasco è una sfida, un po’ come Le mille e una notte. Shahrazād racconta storie per evitare la morte e placare il re. Suad Amiry differisce il mistero di quell’abbandono e intanto lo arricchisce definendone i contorni con la lussureggiante precisione di mille e uno racconti delle vicende di casa Baroudi, di Damasco e della civiltà araba. Damasco è un mondo, e Suad Amiry ti conquista come Shahrazād seduce il re: con tant’altro e tutt’altro rispetto a ciò che ti aspetti.
Per esempio, quella visita della madre naturale alla famiglia che ha cresciuto sua figlia: c’è stata, non c’è stata, si vedrà. Intanto abbiamo, per sedici pagine, un racconto multisensoriale dell’amorevole rito e dello splendore gastronomico dei venerdì a palazzo Baroudi. Quel giorno, infatti, ogni settimana la famiglia si ritrova in formazione allargata, più di cinquanta persone, alla corte del patriarca Jiddo e di sua moglie Teta e per tutto il giorno passano di bocca in bocca confidenze, consigli e perorazioni varie ma, soprattutto, cibi: «La Grande Bouffe comprendeva varie portate, diversi piatti principali e un numero incalcolabile di antipasti. I piatti centrali potevano essere uno, molti o multipli di infinite possibilità». Nel corso di un convivio come questo, quella madre povera avrebbe bussato alla porta del ricco mercante Jiddo per riprendere la figlia abbandonata tanto tempo prima. Sarà vero oppure no, intanto il lettore ha i sensi più che sazi: come il re di Shahrazād, anch’egli ha conosciuto un vertice ineguagliabile di raffinatezza umana.
Damasco è una narrazione nel cuore di un dramma oltre il romanzo. La storia autobiografica della propria famiglia, raccontata da Suad Amiry con tante vicende e alterni personaggi, attraversa il Novecento ed è scandita in due fasi: fino agli anni Sessanta e dopo. La prima è un’ascesa. Lo è per Teta che quattordicenne dal villaggio sperduto di ‘Arrabeh va nella capitale Damasco, sposa di uno degli uomini più in vista di quella città. Lo è per Damasco che in quegli stessi anni immagina di diventare a breve come la grande Istanbul che a sua volta sogna di diventare come Londra e Parigi. Le magnifiche sorti e progressive finiscono negli anni Sessanta: tanto per la famiglia Baroudi, smembrata e in declino economico, quanto per arabi e palestinesi che conoscono divisioni, sconfitta ed esilio. Della grandezza che fu resta nel romanzo il dolore senza fine di un abbandono e nella realtà quello di una guerra.
Suad Amiry, però, come Shahrazād, con le sue mille e una storia ha salvato palazzi, profumi, amori e costumi della sua famiglia e della città più antica e più continuativamente abitata della storia. Nella realtà, invece, di Damasco non sappiamo cosa ne sarà.
Suad Amiry, Damasco, Feltrinelli, 2016