È storia vecchia, inutile scomodare padri nobili ma la sconfitta politica giova all’arte più di ogni vittoria. Quest’ultima, infatti, inevitabilmente impone l’odioso dazio della retorica fino, talvolta, ad un ottuso autocompiacimento celebrativo. La prima, invece, obbliga a riconsiderare le proprie ragioni e, quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare.
La generazione del ’77 (i cinquantenni di oggi) è stata, dunque, favorita dalla diaspora che l’ha costretta a riscoprire il mondo dopo l’illusione d’essere sul punto di conquistarlo con l’urto frontale d’un movimento dalle sorti magnifiche e progressive.
Quell’ondata giovanile, invece, si schiantò contro il muro del «compromesso storico» che – sostiene Enrico Palandri in Pier – in nome della lotta al terrorismo spense il diffuso ardore creativo di quel tempo. Secondo noi, invece, nel corso degli anni ottanta quella generazione costretta «all’eresia» – dopo le giornate di Bologna e il delitto Moro – ha fatto fruttare in altri campi il proprio sogno rinnovando profondamente vari linguaggi dell’arte. A cominciare da quello narrativo, grazie – prima di tutto – allo stesso Palandri (autore nel ’79 del leggendario Boccalone) e a Pier Vittorio Tondelli che l’anno successivo pubblicò i racconti di Altri libertini.
Entrambi formatisi nel crogiolo bolognese del Dams (nel quale insieme al loro si rivelò anche il genio del sanseverese Andrea Pazienza), entrambi denunciati per i propri libri, i due si ritrovano oggi ad «interloquire» nelle pagine di Pier (sottotitolo: Tondelli e la generazione) che Palandri ha scritto per riannodare le fila dell’antico confronto con l’amico poi morto nel ’91.
Pier è, dunque, una commossa e acuta riflessione a due voci perché davvero Palandri riesce a dar conto compiutamente delle ragioni proprie e di quelle di Tondelli, della loro comune passione civile e letteraria e dei diversi modi di entrambi di vivere gli anni ottanta.
Dopo il clamore di Boccalone, infatti, Palandri si è appartato in Inghilterra (avviando una carriera universitaria in quel Paese) a disagio nel nuovo clima italiano di riflusso e mancato ricambio generazionale. Tondelli, invece, si tuffò con immutato entusiasmo nella realtà giovanile cercando nella provincia, nel costume e nei nuovi linguaggi le mutazioni genetiche di quella creatività che nel decennio precedente aveva animato radio libere, indiani metropolitani e quant’altro.
L’uno continuò una propria sofferta e solitaria resistenza intellettuale alla paralisi politica italiana, l’altro scommise sulla natura carsica del movimento e sulla sua capacità di scavare nella società imprevedibili vene sotterranee fino a farsi scopritore (a partire dall’86) di nuovi talenti letterari nelle pioneristiche antologie prodotte dalla piccola casa editrice Transeuropa di Ancona nelle quali esordirono Silvia Ballestra, Giusepe Culicchia, Gabriele Romagnoli e tanti altri…
Gli anni ottanta raccontati da Tondelli in Un weekend postmoderno sono di una vitalità sorprendente, tutt’altro che imballati. Un po’ come Rimini, il suo romanzo dell’85 a cui Palandri imputa una nuova maniera commerciale e che, invece, per Tondelli era l’esatta rappresentazione dei giovani di quegli anni e della loro voglia di affermare il proprio talento nella professione anziché rivendicare una (presunta) diversità nei confronti della società.
A pag. 48, lucidamente Palandri pone la questione in questi termini: «Se cioè esista una specifica qualità della letteratura che la opponga al giornalismo, alla storia, alle altre forme di scrittura… O se la ricerca di questa specificità non porti piuttosto e inevitabilmente a un inaridimento delle ragioni stesse del fare letteratura, a un’autolimitazione che si conclude nella sterilità».
La grandezza di Tondelli è che forse il problema non se l’è neanche posto tuffando senza riserve le proprie parole nella vita con l’unico scudo dello stile (che in Rimini è, per esempio, l’orchestrazione sinfonica e la pluralità dei linguaggi).
La «generazione eretica non ha dato una poetica» ma tante «forti affabulazioni»: nel cambio – secondo noi – la letteratura ci guadagna. Palandri, forse, non è d’accordo. Ma il punto è: dopo quel folgorante uno-due del ‘79-’80 (con l’irruzione nella narrativa della «grande cultura del rock e del pop») hanno saputo negli anni successivi i romanzi italiani «affermare la centralità di questioni importanti per la nostra vita collettiva» (caso mai svolgendo un ruolo di supplenza rispetto alle mancanze della politica e dei media) o sono stati puro intrattenimento?
I buoni romanzi – sempre frutti solitari – sono (tra) gli anticorpi con cui le società contemporanee reagiscono “all’oblio dell’essere”. Più una realtà pare pacificata, più ne produce: è accaduto anche in Italia negli anni ottanta.
Enrico Palandri, Pier – Tondelli e la generazione, Laterza, 2016