Una bellezza devastante. Interrogativi e verità insostenibili. Stella Maris viene da un’altra civiltà, come il monolite di Kubrick.

Per capirci. È da sempre per noi un mantra questa risposta di Daniele Del Giudice a una nostra domanda nel corso di un’intervista su Nel museo di Reims: «Un elemento fondamentale, tra gli altri, della mia ammirazione per Calvino era la sua capacità di circondare i fatti con precisione, costringendoli così a venir fuori, ma a venir fuori con tutto il loro mistero: perché lui non pensava, come io non penso, che esista una sostanza delle cose e che questa possa essere detta e centrata attraverso le parole».

  • Ebbene, in Stella Maris Alicia cerca proprio questa sostanza delle cose, la cerca oltre ogni limite, la cerca con i numeri, la cerca fino ad impazzire: «… identificare i limiti di un sistema non era solo identificare i limiti. Era identificare quello che c’era oltre i limiti. Dovevi solo cominciare coll’identificare i limiti… la matematica non aveva limiti… era inesauribile… E adesso dovevi metterti lì e pensare all’universo… (ma) la tua ricerca avrebbe arrancato sotto una sempre minore disponibilità dell’empirico. Già mentre lavoravi l’universo si allontanava».

Prima di tutto. Stella Maris (traduzione di Maurizia Balmelli) è la seconda parte di una diade cominciata con Il passeggero. I due romanzi sono autosufficienti ma complementari, connessi ma non saldati fra loro. Raccontano la storia di Bobby e Alicia dal punto di vista dell’uno e poi dell’altra. Nell’insieme fanno la storia di un amore. Tragico. Perché Bobby e Alicia sono fratello e sorella, e tanto già basterebbe. Ma c’è dell’altro. Il padre era nel gruppo degli scienziati che avevano lavorato al progetto Manhattan, quello della bomba atomica poi fatta esplodere a Hiroshima e Nagasaki. Una cesura nella storia mondiale. I due figli hanno ereditato dal padre la genialità e con essa la consapevolezza che matematica e fisica, inarrestabili, hanno ormai varcato il limite delle capacità umane di governo delle scienze precipitandoci in moto uniformemente accelerato sul piano inclinato d’una catastrofe globale.

Oltre i limti cosa c’è? C’è l’Archatron. Oppure, cosa? Quel capolavoro che è l’uomo? Solo un momento e chiariamo. Intanto teniamo fermo questo punto: Stella Maris è un’investigazione metafisica. Il thriller che alimenta la tensione de Il passeggero (ricordate? Il decimo passeggero e la scatola nera che mancano nel relitto aereo perlustrato da Bobby in ispezione subacquea e, quindi, i due agenti «con un’aria da missionari mormoni» che lo tallonano e perseguitano…) è una falsa pista.

I due agenti e l’entità speriore che rappresentano sono l’innesco da remoto della prigionia a cielo aperto di Bobby e del suo conseguente vagabondaggio fra amici alla deriva come lui e come lui in cerca di senso. La ricognizione interiore di Bobby, le sue riflessioni sono per strada, su spiagge e lande desolate, immediato il riferimento al capolavoro del 2007, La strada. Stella Maris, invece, è drammaturgia e richiama Sunset limited. Tutto il romanzo, infatti, è un confronto serrato, un flusso dialogico ininterrotto fra Alicia e il dottor Cohen, che con esercizio maieutico prende in cura la ragazza, ventenne, autoreclusasi nella clinica psichiatrica del titolo con al seguito la stramba corte dei personaggi delle sue allucinazioni guidati da Talidomide Kid, il più beffardo, arguto e irriverente di tutti.

«Un metro di altezza. Faccia strana… Età indefinita. Calvizie incipiente se non conclamata. E poi ha queste pinne. Peserà una ventina di chili… Non ha le sopracciglia. Sembra un po’ deturpato. Forse ustionato. Il cranio è coperto di cicatrici. Come se avesse avuto un incidente. O una nascita difficile… Porta una specie di kimono. E fa continuamente su e giù. Con le pinne dietro la schiena.. Un po’ come un pattinatore su ghiaccio. Parla ininterrottamente e ricorre a frasi idiomatiche che sono certa non capisca. Quasi avesse trovato la lingua da qualche parte e non sapesse bene cosa farci. Ciononostante – o forse proprio per questo – ogni tanto dice cose abbastanza straordinarie. Ma è tutt’altro che una figura onirica. È coerente in ogni dettaglio. È perfetto. Una persona perfetta.» Un personaggio perfetto.

In questi suoi ultimi due romanzi, con Bobby e Alicia, McCarthy ha osato l’impossibile. Sotto l’egida della bellezza (Alicia è bella come una dea) ha sfidato i numeri con le parole cercando una sant’alleanza fra loro. Con quale esito? Alicia è un genio della matematica, il suo Olimpo (ndr. da scandire come una formazione di calcio, attenzione alla punteggiatura): Cantor, Gauss, Riemann, Eulero. Hilbert. Poincaré. Noether. Ipazia. Klein, Minkowski, Turin, von Neumann. Ancora: Cauchy, Lie, Dedekind, Brouwer. Boole, Peano. Church, ancora vivo, come Grothendieck, peraltro amico di Alicia. Infine Hamilton, Laplace, Lagrange…. e naturalmente gli antichi. Un discorso a parte Gödel.

«Guardi questi nomi e il lavoro che rappresentano e ti rendi conto che in confronto gli annali della letteratura e della filosofia contemporanee sono di una desolazione senza pari.» Alicia ha letto anche quelli: due libri al giorno. Di media. Per circa dieci anni. Settemilatrecento. Più probabilmente diecimila. E si ricorda tutto: altrimenti, dice, perché leggere?

«Con l’intelligenza verbale si arriva solo fino a un certo punto. Poi c’è un muro, e se non capisci i numeri non vedi nemmeno il muro. La gente che sta dall’altra parte ti sembrerà bizzarra. E non capirai mai la libertà d’azione che ti offrono… Qualcuno ovviamente potrebbe far notare che l’intelligenza è una componente essenziale del male. Più si è stupidi meno si è capaci di nuocere».

Se oggi cercassimo la posizione dell’umanità su una mappa digitale, essa ci indicherebbe esattamente questo crocevia: libertà e male alla massima potenza entrambi a portata di mano. L’amara verità, però, è che la libertà è una possibilità, il male una certezza. I numeri non servono al funzionamento dell’universo, servono solo a parlarne. I numeri si perdono in una spirale autoreferenziale e l’universo (l’empirico) si allontana.

L’Archatron, invece, è lì, oltre il cancello. È l’inferno. Un vento mefitico, un’oscurità: «Ho visto il cancello e i guardiani del cancello. Oltre non sono riuscita a vedere. Mi hanno intimato di tornare indietro fulminandomi con il loro gelido sguardo di ratti. Li ho visti dallo spioncino che non avrei dovuto trovare… ho avuto il sospetto che fossimo semplicemente incapaci di immaginare le malvagità epocali di cui siamo giustamente accusati e credevo quantomeno possibile che la struttura stessa della realtà albergasse in sé qualcosa di simile alle forme di cui la nostra sordida storia è solo un pallido riflesso».

  • Al di là delle parole chissà cosa c’è. Al di là dei numeri chissà cosa c’è. Forse un mondo diverso. Un sentimento. Forse la musica. Alicia è una virtuosa e un’autorità mondiale sui violini di Cremona, con trecentomila dollari di un’eredità compra in modo avventuroso un Amati visto solo in foto (sedici esemplari al mondo costruiti fra il 1564 e il 1574). Piange, quando apre la custodia e lo vede e lo suona, e noi abbiamo pianto con lei e soffrendo e piangendo, commossi e grati, l’abbiamo amata come amiamo Ofelia: «L’ho tolto dalla custodia e mi sono messa ad accordarlo… L’ho teso e poi ho semplicemente iniziato a suonare la Ciaccona di Bach. In re minore? Non ricordo. Un brano così crudo, tormentoso. L’aveva composto per sua moglie, morta mentre lui era lontano. Ma non sono riuscita ad arrivare in fondo… Perché mi sono messa a piangere. Mi sono messa a piangere e non riuscivo a fermarmi… Ricordo di aver asciugato le lacrime dal legno di abete e di aver messo da parte l’Amati e di essere andata in bagno a sciacquarmi la faccia. Ma il pianto è tornato. Continuavo a pensare al verso: Che capolavoro è l’uomo. Non riuscivo a smettere di piangere. E ricordo di aver detto: Cosa siamo? Seduta sul letto con l’Amati tra le mani, talmente bello da sembrare irreale. Era la cosa più bella che avessi mai visto e non riuscivo a capire come una simile cosa fosse anche solo possibile».

Dicono che McCarthy sia morto il 13 giugno 2023, a Santa Fe, nel Nuovo Messico. In realtà è solo tornato a casa, fra le divinità della letteratura.

Che capolavoro è l’uomo, com’è nobile nella ragione, com’è infinito nelle sue facoltà, com’è preciso e ammirevole nella forma e nel movimento, com’è simile a un angelo nell’azione, com’è simile a un dio nell’intendimento: bellezza del mondo, misura di ogni animata cosa.

Amleto, Shakespeare, atto II, scena II

Cormac McCarthy, Stella Maris, Einaudi

Su Cormac McCarthy puoi leggere anche Il passeggero