Ora diciamo un’eresia: Byung-Chul Han bisogna leggerlo come una poesia. Intendiamo, con saggia lentezza meridiana.

La forma semplice e breve dei suoi libri inganna. Per apprezzare appieno la bellezza espressiva e l’alta densità concettuale delle pagine bisogna fare un po’ di snorkeling, nuoto di superficie con maschera e boccaglio, nelle acque limpide del tema, di volta in volta sintetizzato da titoli secchi ed efficaci. Questa volta La crisi della narrazione.  Antagonisti e killer, comunicazione e informazione. Finto alleato, in realtà sanguisuga e perfido traditore, lo storytelling. Mandante, il capitalismo liberale o della sorveglianza. Proviamo a darne conto, con marcatura ad uomo del testo.

La filosofia per Byung-Chul Han (Seoul 1959, già professore di Filosofia e studi culturali presso la Universität der Künste di Berlino) è narrazione. O non è. Platone, in nome della verità, esercita una critica al mito come racconto ma «lui stesso fa un uso frequente di racconti mitici». Tipo, Fedro. Perché? Perché certe verità non puoi spiegarle o dimostrarle (quella è la morte della filosofia) ma solo raccontarle e non puoi fare a meno di raccontarle perché sono belle o, almeno, a te così paiono: belle e, quindi, vere. Perciò utili.

Allora, ma davvero le anime dei colpevoli vengono condannate a delle torture eterne nel Tartaro, e solo quelle virtuose giungeranno dopo la morte nella dimora celeste? Ammette Platone: «Certamente sostenere che le cose siano veramente così non si conviene a un uomo che abbia buon senso; ma sostenere che qualcosa simile debba accadere… dal momento che l’anima è immortale: ebbene questo mi pare che si convenga arrischiarsi a crederlo, perché il rischio è bello! E bisogna che con queste credenze, noi facciamo l’incantesimo a noi medesimi».

Questo è il punto: la «prassi narrativa» è un rischio. È il rischio del nuovo. «Attira il passato verso il presente». È raccordo e confronto con il passato che tramandando l’esperienza azzarda il futuro. Da Platone a Cartesio a Kant a Nietzsche, ogni teoria è narrazione. Narrazione appassionata. È bandiera di comunità. «Offerta di senso». Noi da sempre la chiamiamo trazione anteriore, e da quarant’anni la cerchiamo fuoripista, nei romanzi. A torto o a ragione.

A torto, secondo Benjamin. Scrive Byung-Chul Han: «Secondo Benjamin il primo sintomo del processo di decadenza della prassi narrativa è la nascita del romanzo all’inizio dell’epoca moderna… Mentre la prassi narrativa dà forma a una comunità, il romanzo è la sala parto dell’individuo con la sua solitudine e il suo isolamento». A ragione, secondo Milan Kundera. Il romanzo moderno – dice, infatti, Kundera  – svolge quel compito vitale di «esplorazione dell’essere dell’uomo e del mondo concreto della vita» che un tempo era della filosofia e della scienza e che da esse è stato abbandonato a favore di un sapere tecnico e specialistico (L’arte del romanzo).

Oggi, comunque, stiamo perdendo ogni capacità o pratica del racconto. La filosofia, come la religione, per esempio quella cristiana, o i grandi romanzi, i classici, è il vertice ma la «prassi narrativa» è franata alla base, nelle fondamenta della nostra quotidianità. Che poi manchino le eccellenze è solo una conseguenza. «Una narrazione capace di trasformare e di aprire un tempo non può nascere dal capriccio di una singola persona. Essa è espressione di una tonalità emotiva del tempo.» (ndr. i corsivi sono dell’autore) Allora, che è successo?

Un esempio estremo. Byung-Chul Han cita Péter Nádas (e tanti altri, ogni capitolo ha un autore di riferimento). Nádas in Cauta localizzazione «racconta di un villaggio nel cui centro si trova un pero selvatico dai rami secchi. Durante le calde notti d’estate gli abitanti del villaggio si riuniscono sotto l’albero e si raccontano delle storie. Il villaggio costituisce una comunità narrativa». Contemplazione rituale, silenzio e quieta armonia. «La comunità senza comunicazione cede il passo a una comunicazione senza comunità… Noi non ci raccontiamo l’un l’altro alcuna storia. Proprio per questo comunichiamo eccessivamente. Postiamo, condividiamo, mettiamo like… le Storie condivise sulle piattaforme social non sono… che una pornografica esibizione o promozione di sé». Più ci mostriamo agli altri più ci nascondiamo a noi stessi. Dobbiamo ritrovare il respiro e la pienezza dell’essere, riappropriarci di noi stessi.

Non è questione di tornare d’estate sotto il pero o d’inverno intorno al camino rottamando televisione e smartphone. Nessun rigurgito fondamentalista. Il punto è che l’incessante tsunami dell’informazione azzera il tempo contraendolo in un eterno presente. «Siamo divenuti poveri. Abbiamo ceduto un pezzo dopo l’altro dell’eredità umana… per riceverne in anticipo la monetina dell’“attuale”» (Walter Benjamin, nume tutelare di questo libro di Han). Saltiamo da una novità all’altra. L’attenzione è degradata in curiosità. Abbiamo perso lo sguardo lungo, lento, che sa indugiare. Nel nostro tempo non c’è più ieri né domani, c’è solo l’usa e getta sempre più nevrotico di un oggi senza storia.

Ci stanno rubando la felicità. «La felicità non è un evento puntuale. A caratterizzarla è una coda lunga che si estende nel passato. Essa si nutre di tutto ciò che è stato vissuto. La felicità non si manifesta sotto forma di un bagliore improvviso ma di una luce che attraversa il tempo».

Le narrazioni di cui abbiamo bisogno sfuggono ad ogni precettistica, non possono essere costruite seguendo delle regole di composizione. Non sono le  «offerte a buon mercato di senso e identità… dei modelli populisti, nazionalisti, di estrema destra o tribali, inclusi quelli complottistici». Né – aggiungiamo noi – quelle edificanti variamente declinate da presunte e presuntuose anime elette.

Byung-Chul Han svuota di significato ogni pretesa normativa volando attorno a categorie pesanti come una farfalla e pungendole come un’ape, ma noi siamo per una sorta di radicale teologia negativa del romanzo, di cui crediamo si possa dire soltanto quello che non è. O che è stato. Non quello che deve essere. Neanche che «un racconto, come un sillogismo, è una forma che giunge a una conclusione [Schlussform] che dà forma a un ordine chiuso e offre senso e identità» oppure «in contrapposizione al romanzo, che mette all’opera la psicologia e l’interpretazione, la prassi narrativa procede in modo descrittivo». Crediamo, inoltre, che interpretazione c’è in ogni elaborazione narrativa e non crediamo a una mitica età dell’oro della «prassi narrativa» o «vero racconto» poi giocoforza tradita dal romanzo.

Le narrazioni di cui abbiamo bisogno nella loro libertà assoluta hanno un «momento di verità interno…  un’aura intrisa di lontananza» che con il suo inesauribile segreto marca una distanza e «spazza via la contingenza» inchiodandoci all’ascolto. Altro dirti non so, ma oggi «noi produciamo noi stessi, ci spiamo a vicenda anziché, dimenticando noi stessi, donarci ascolto e restare in ascolto l’un l’altro».

Byung-Chul Han, La crisi della narrazione, Einaudi

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