Giuseppe Bernardo Annese, Andrea G. Pinketts (parte prima)

«Non sono mai solo parole», chissà quante volte l’ho ripetuta e la ripeterò, questa tua frase, caro Andrea. La scrivesti per Giuseppe Annese insieme a tante altre cose belle. Eccole

La primavera che non ci incontrammo, di Andrea G. Pinketts

Correva l’anno 1979. E correva molto piano, più che altro una passeggiata, visto che fu superato in corsa dal 1980, 81, 82, 83, sino ad arrivare a questo annaspante e sudatissimo 1996, vicino al traguardo del nuovo secolo. Il ’79, però, me lo ricordo benissimo perché fu l’anno in cui non ci incontrammo. L’anno che non ci incontrammo, caro Giuseppe, sembra un tuo titolo, un tuo slogan. Non sono mai solo parole. Le parole sono i vampiri che dopo essersi nutriti del nostro sangue ci sopravvivono. In ogni caso nel ’79 ci mancammo per un soffio. Un alito di vita che se ne andava, la tua. Non ci incontrammo ma ti conobbi. Attraverso due tipi di parole. Le tue, mister G. Bernardo Annese, consegnatemi inconsapevolmente grazie alla pubblicazione di Serenità in agguato, il tuo kitsch-romanzo che era in anticipo allora come lo è oggi perché correva più forte del tempo. Le altre, quelle di Dayna, tua figlia, e Nives, tua moglie. Fu una strana primavera, quella. Dayna aveva una quindicina d’anni e garriva come una bandiera di rugiada e lacrime trattenute al vento del primo incontro di boxe Vita-Morte. La Morte aveva vinto il primo round. Dayna era adorabilmente piccola nelle sue forti fragilità. E infatti l’adorai. Nives si ritrovava a fare i conti con due elementi apparentemente inconciliabili: un’adolescenza e un lutto. Fu un lavoraccio per lei rendere primaverile quella primavera. Cercai di dare il mio contributo con ciò che potevo offrire: l’amicizia. Ricordo le serate in terrazzo, senor Annese, coi tuoi amici e le tue donne a parlare di te. Io ascoltavo. Il vino bianco era buono, e cercavo di bere anche la tua parte. Era un modo per introiettare il brindisi che avresti fatto tu, accompagnandolo con una di quelle battute di inarrivabile, poetico cinismo che hai disseminato nelle tue opere. Oggi che i libri li scrivo io, cerco di restituirti qualcosa. I tuoi amici raccontavano formidabili, commossi, divertentissimi aneddoti sul tuo modo di affrontare il grande circo del circo-stante. Il tuo essere un affabulatore. Le tue promesse da marinaio (BILLY BUDD «giornale doppiamente sconsiderato, in quanto satirico e marinaresco»). Ebbene, nonostante la malinconia del tuo bicchiere inevitabilmente non bevuto, allora non poteva mancare qualche guizzo d’allegria. La tua. Il tuo modo di partecipare senza esserci fisicamente. Un regalo, un giro offerto in anticipo. Eravamo tutti caduti nell’agguato della “serenità”. Se è vero quello che diceva Zolà: -Un’opera d’arte è un angolo della Creazione visto attraverso un temperamento-, le foto che ti ritraggono parlano già da sole, in quanto a temperamento. Vi si legge macerazione e divertimento, guarda caso gli elementi che sono antitetici solo per chi non sa essere a un tempo semplice e complesso. Oggi la letteratura che ha qualcosa da dire è quella di contaminazioni. Non esistono steccati che non si possano saltare con un sorriso un po’ forzato da spot pubblicitari. Non esistono generi costretti all’autoisolamento. Persino la memorialistica può diventare teatro dell’assurdo, perché la vita è sia assurda che un teatro. Il tuo, sempre pieno. Lo avevi intuito e applicato prima di quella primavera ’79 a cui non ti è stato dato di partecipare. Recentemente ho conosciuto Vittorio Gassman. Il tempo lo ha un po’ provato. È contemporaneamente vittorioso e sconfitto, come accade a quelli che hanno bazzicato il Monte Olimpo, macerandosi e divertendosi. Non accetta la morte, la chiama “la Grande Bua”, un’espressione infantile come quel periodo in cui pianto e risate sono in continua, schizofrenica alternanza. Tu, Giuseppe, dalla Grande Bua ci sei già passato. Non ti resta che continuare a vivere nelle parole che hanno smesso di giocare a nascondino.

Lo ricordo anch’io, quell’annaspante e sudatissimo 1996. Ricordo l’estate, a lavorare al manoscritto del senor Annese per farne un libro in modo che le sue parole smettessero di «giocare a nascondino». Dal balcone di casa fra me e il mare le pagine di Macerazioni divertenti. Me ne aveva parlato Enzo. Era stata una sua scoperta, il romanzo e tutta la storia artistica e letteraria di Giuseppe Bernardo Annese, originario di San Severo e poi milanese per scelta di vita artistica e letteraria…

  • …e poi e poi, c’è quest’altra emigrazione di noi dauni e provinciali dispersi un tempo per l’Italia senza valigia di cartone ma con in testa il chiodo fisso di rifiutare il presente e morire di speranza: Annese a Milano al Giamajca, Pazienza a Bologna al Dams, Mariateresa Di Lascia a Roma nel partito radicale. Tutti e tre andati via da casa giovanissimi perché avevano un’arte e non volevano metterla da parte, tutti e tre portati via prima del tempo che era loro (quarantasette, trentatré e quarant’anni) dallo stesso identico male che – al di là del suo specifico nome – da sempre si chiama disagio del mondo e di se stessi: accidia in Petrarca, noia in Leopardi, spleen in Baudelaire…
  • Ogni artista nella sua sensibilità malata cova una ferita, quando poi le vicende sociali e politiche vi spargono sale, essa allora diventa insopportabile: infiamma l’opera, uccide l’autore. Sono morti così, Annese, Pazienza e Di Lascia: perché sono rimasti al palo, esposti alle intemperie sentimentali quando il sogno rivoluzionario si è spento e loro non sono rientrati a cuccia ma con disperata, ingenua, laboriosa e caparbia onestà di dauni e provinciali hanno continuato a cercare dentro il proprio dolore un linguaggio vero da opporre al kitsch della serenità di nuovo in agguato tra la gente. Annese, Pazienza e Di Lascia (va da sé) sono stati vittime d’una storia individuale (più o meno infarcita d’alcol, eroina e metastasi) ma prima ancora sono caduti sotto i colpi dei loro anni, che hanno vissuto davanti a tutti, più intensamente di tanti: i favolosi sessanta l’intellettuale Giuseppe Bernardo, i cruenti settanta il giovane Andrea, i postmoderni ottanta Mariateresa la pasionaria.
  • Un eguale filo di luce unisce i loro destini e corre e rimbalza da una vita all’altra e non s’impiglia nei tanti nodi del vivere comune con la gente della propria terra ma vola alto sopra le teste e legge ciò che attraversa mentre va dritto e veloce per la sua strada e prima ancora di spegnersi in uno già rinasce in un altro. Annese, Pazienza e Di Lascia sono dauni e universali.

Quella verità che anima tutta la sua opera entra definitivamente in circolo nel sangue di Annese nel ‘56: è allora che la sua inquietudine giovanile esplode nella fase conclamata di irreversibile malattia esistenziale.

Quell’anno i carri armati russi soffocarono nel sangue la rivolta degli operai ungheresi. Per tanti fu la fine di un sogno, il ritorno alla ragione. Ma Giuseppe Bernardo Annese non voleva avere ragione, nel ‘56 aveva ventiquattro anni, voleva cambiare il mondo e perciò proprio allora fece la sua scelta di campo rivoluzionaria prendendo le distanze dalla classe borghese d’origine.

Il padre, farmacista e latifondista, e la madre, nobile e religiosa, gli avevano imposto la laurea in Giurisprudenza e sognavano per lui un avvenire nel solco della tradizione: Giuseppe, invece, scelse i contadini e l’arte, scelse il diavolo e i Saracini. Il ‘56 fu il suo Sessantotto. Quell’anno al militare in Friuli conobbe il popolo e per lui – intellettuale acuto e solitario, brillante e impacciato, brufoloso e sognatore – la vitalità primitiva e naif dei commilitoni fu la scoperta di un’altra umanità. Aderì al comunismo per slancio sentimentale verso un’ipotesi di vita in cui l’impegno politico e culturale al fianco degli umili e dei vinti sarebbe stato l’antidoto all’estenuante, sfibrato languore di morte che sentiva intorno e dentro di sé: nel sud offeso dalla miseria e malato come la sua sensibilità ferita dalla rigidità paterna.

Subito dopo il servizio di leva, Giuseppe Bernardo abbandonò il tirocinio, rinunciando alla professione legale, e con tante opere sotto il braccio e altrettante illusioni in tasca si trasferì a Milano. Frequentò il bar Giamajca e conobbe le avanguardie artistiche del tempo. In un lampo capì. Era come temeva nel suo cupo fondo fatalista (di aristocratico meridionale) che sperava di essersi lasciato alle spalle salendo sul Lecce-Milano.

Era la maledizione del principe Salina: stava per cambiare tutto ma non sarebbe cambiato niente. Il terziario avanzava con le sue compiaciute, viscide e ottuse falangi di travet, la classe operaia non sarebbe mai andata in paradiso, gli amici di Brera non avrebbero mai fatto la rivoluzione ma sarebbero subentrati ai nemici al primo turn over, le parole della letteratura avrebbero continuato ad essere lo stanco latinorum di sempre. Era appena sbarcato nella metropoli lombarda, non aveva fatto ancora in tempo a disfare le valigie che già gli era crollato addosso il muro di Berlino: cazzi acidi per Swann, nonostante avesse preso in tempo il Lecce-Milano (parafrasi di una sua battuta). Gli anni sessanta e settanta per Annese sarebbero stati solo un doloroso déjà vu.

Altri si sarebbero tirati indietro badando al proprio particulare, ma lui non era tipo da egoismi pantofolai e bevve il calice fino in fondo: continuò imperterrito a tenere sotto tiro le meschinità del tempo, divertendosi a irritare amici, compagni e principali con quel suo «atteggiamento volutamente cinico, l’aria scanzonata, il sorriso beffardo e il tono sempre polemicamente ironico» (Giuseppe Migneco); s’inventò l’impossibile e fu poeta, romanziere e sceneggiatore (scrisse per il cinema, la televisione, la radio e il teatro), collaborò con Marcello Marchesi e fu amico di Ennio Flaiano (che gli scrisse alcune lettere pubblicate in appendice a Macerazioni divertenti), fu pittore e critico, fondò associazioni politiche e movimenti culturali, diresse un giornale satirico di nome Billy Budd. Fu artista a tutto campo, di lotta e mai di governo.

UNA MODESTA PROPOSTA PER VIVERE IN UN PAESE MENO STUPIDO E PIU’ CIVILE,

recuperando il proprio cervello e iniziando insieme un circolo, culturalmente, non vizioso.

 di GIUSEPPE B. ANNESE

 CHI SIAMO.

Siamo intellettualmente degli Apoti. Coloro che non la bevono. Meglio: coloro che non la bevono più. Il contrario dei Beoti. Beoti in buona fede, pericolosi. Beoti in mala fede, esiziali e corruttori. Dal “basta bere” al non voler più portare acqua, la metafora è breve e tentatrice. Abbiamo perduto anni, adorando Idoli di merda.

Il nostro rifiuto inizia a farsi reale nel meditato rigetto di ogni ideologia, per essa intendendo un sistema chiuso, autoritario e preordinato di domande e risposte. Con tutte le conseguenti aberrazioni del terrorismo manicheo e del criminoso imbecille etichettare, pastura redditizia dei porci di ogni tendenza. Da Apoti, quindi, constatiamo il decesso delle ideologie, forse disintegrate per ingordigia di morti.

Molti di noi votano ancora PSI, registrando, con ineffabile disperazione, il suo cabotaggio suicida tra i favori del Grande Fratello e le grazie della cuginetta depravata. Diciamolo una volta per tutte. PSI come ultima spiaggia. Greve e fragile, avvelenata, disastrata, cedevole e ricattatoria. Ma questo spazio disperato non è un’indicazione preclusiva.

La nostra “dissidenza” vuol essere estesa e profonda, anche se inizialmente solo culturale.

 COSA VOGLIAMO.

Uno spazio nostro. Indipendente e luminoso nella pazza notte delle etichette. Non limbo di esercizi qualunquisti ma cultura operante mai più ricattabile dalla interessata voracità della collocazione partitica. Un esempio: recuperare un tipo di autori e di pensiero che solo la interessata viltà di un potere “sedicente di sinistra” ha colpevolmente elargito alla propaganda di destra.

Non vogliamo essere più consumabili ma riprendere il nostro destino – troppo delegato! – secondo coscienza, intelligenza e ricerca. Reinventarci gruppo con un responsabile lavoro di confronto. Serenamente, con giusta ironia. Quindi, né superbia né complessi verso gli Idoli (Ideologhi a tempo pieno, Grandi Firme del Pensiero, Sociodivi, Estremisti, della sovvenzione). Ma libertà assoluta da ogni cattedrale, cattedra, caverna. Da ogni luogo dove – sempre in alto, sempre in pochi, sempre sulla pelle degli altri – si sperimentano i virus del consenso pilotato. Salsine piccanti della trasgressione per iniziati, pane e Tomizza per i minorati.

 COME OPERARE.

All’inizio. Riconoscendoci “simili”. Verificandoci allegramente ma con sincerità nella più antica e umana chiave di aggregazione: l’onestà del nostro comportamento. Tutta qui la nostra unicità di gruppo.

In seguito. Costruendo insieme gli strumenti più validi per comunicare, rafforzare, allargare la nostra esperienza.

Questa proposta nata da un desiderio (rompere un isolamento-solitudine ormai insopportabilmente privati!) continua con una speranza: vediamo di non farci fottere sull’ultima spiaggia.

Già nelle poesie di Morire di speranza, scritte fra il ’53 e il ’61, poi pubblicate anche quelle da Books Brothers, negli stessi anni in cui viveva il distacco dal sud e si proiettava verso un mondo nuovo, Giuseppe Bernardo soffriva la fine della propria illusione e piangeva l’impossibile salvezza di se stesso e della propria terra. Da questo contraddittorio, inestricabile groviglio di sentimenti (ingovernabili nella vita e perciò affidati all’arte) nasce quel particolare tono al tempo stesso elegiaco ed epico della sua poesia. Quella distanza struggente, quella musicalità morbosa ed eterea, quei refrain dolorosi e ammalianti di dubbi e rimpianti sono l’armonia vanamente inseguita nelle lunghe e tormentate passeggiate sul viale della stazione, tra le sigarette e il vino del Giamajca. Armonia vanamente inseguita e mai veramente posseduta: se non, appunto, nella sapienza metrica della parola. Solo la propria opera dà pace all’artista: essa l’uccide, essa lo salva.

E noi che restiamo

Sul grembo sordo di questa pianura

Per un cuore d’argilla che trema

A tutte le scadenze della memoria

Noi

Che vorremmo durare umani,

Oltre queste mutazioni di carbonio,

Non abbiamo più parole.

Noi che urliamo d’amore nel sonno

Noi che abbiamo solo questa vita

Scontiamo per tutti

Quest’ora

D’insensata solitudine.

Ora che un altro inverno assedia la pianura.

Tutto vero, quasi un epigrafe; tutto vero, tranne quel silenzio preannunciato («Non abbiamo più parole») che invece non ci sarebbe stato. Perché Annese, Pazienza e Di Lascia erano così: disperati e lucidi; ingenui, laboriosi e caparbi; pronti a far dono agli altri del proprio dolore, fino all’ultimo. Tra una battuta e una vignetta, tra una ferita e l’altra. Perciò noi li amiamo, questi nostri tre magnifici maledetti.

Dayna ti parlava del padre con l’ammirazione di una figlia e in quella grandezza tu, Andrea, subito riconoscesti affinità con il talento che urgeva in te. Anche ad Enzo e a me bastò poco per farci venire voglia di pubblicare Macerazioni divertenti. Leggemmo e sbalordimmo. Macerazioni divertenti e tutta l’opera di G.B. Annese era nero su bianco la trazione anteriore che da sempre vagheggiavamo, il gioco letterario offensivo, coraggioso e spregiudicato, che affronta a viso aperto le tensioni della contemporaneità e perciò può anche prendere tanti goal, ma alla fine ne segna sempre uno più dell’avversario, il tempo. Macerazioni divertenti era affondare il colpo dentro la ferita aperta della propria storia. Sangue e sudore raggrumati in forma d’arte. Matteo Misura, un alter ego.

Giuseppe Bernardo lo scrisse scritto fra il 63 e il ’65, ispirandosi alle esperienze della naia e del Giamajca e scavalcando di slancio gli schemi narrativi correnti. Soprattutto per linguaggio e stile. Macerazioni divertenti è opera eccentrica, ancora oggi moderna per eccesso sia per la forte carica di denuncia del degrado sociale e culturale che per l’irrefrenabile verve umoristica svolta a briglia sciolta nei modi di una narrazione sempre attenta alla continuità e unitarietà della storia.

C’è la naia e la Caserma Medaglia d’oro “Sac. Stichizzi”, «volgarmente detta saccio sticazzi». Ci sono i fatti d’Ungheria, la scoperta dei «selvaggi» e l’adesione al comunismo. C’è il miracolo economico e il Giamajca. Ci sono le nuove leve culturali, così smaniose di dare prova di sé ma tanto simili alle «camicine bianche», i piccoli travet del Potere. C’è, quindi, la puntuale e devastante sconfessione di quei valori fondamentali – come l’amicizia – conquistati in caserma e da Matteo posti al centro della propria coscienza civile, politica e letteraria. Ci sono, infine, due struggenti lettere di Matteo alla moglie dal centro per “Alcoolopatici” di Cernusco, dove è in cura disintossicante.

Ma c’è, soprattutto, un pastiche linguistico di stampo gaddiano, che riproduce le voci dei vari personaggi senza deformazioni letterarie e censure moralistiche. Ci sono espressioni dialettali delle varie regioni d’Italia: cori e parolacce non hanno, però, solo esilaranti effetti di comicità ma sono dei veri e propri squarci di umanità. Fulminanti e improvvisi scatti adrenalinici di marionette nervose e disarticolate. Come i ghigni di poetico cinismo – degni dell’amico Flaiano – disseminati in tutto il libro. Come la guerriglia libertaria della punteggiatura contro il dominio logico della sintassi per imporre l’aspro e moderno contrappunto di una percezione del mondo inquieta e critica. Dissonante, vigile, premonitrice.

Avevamo l’età giusta per invaghirci di un sogno. Mi inventai un nome, Books Brothers. Enzo approvò. Il resto venne da sé. Tipo: c’è sempre da qualche parte un libro da salvare e accudire, un orfano da accompagnare in giro per il mondo delle lettere fino a trovargli la famiglia di un editore in grado di provvedere al suo sostentamento. Il nostro sacro PIL – dichiarammo – è il Pronto Intervento Letterario. E in una manciata di anni ne facemmo di PIl, eccome se ne facemmo. Potrei sciorinare un nutrito elenco di titoli e nomi, ma non è questo né il luogo né il momento. Qui e ora mi preme solo ritrovare la magia di quella prima volta. Per il resto c’è tempo.

Pensavamo sarebbe stato facile trovare un editore. Pensavamo che allo squillo di quelle pagine ogni resistenza sarebbe crollata come le mura di Gerico. Cominciammo dall’editore più grande, quello che aveva in catalogo legioni di autori, di tutto di più, alto e basso. Il contatto era buono, eravamo accreditati. Convinti e decisi, tutto dicemmo in quell’incontro, anche delle cinque lettere inedite di Flaiano che sarebbero andate in appendice al libro. Le rileggo, e di nuovo mi si slarga il cuore per quell’amicizia di forti intenti che scorre come fuoco nello spazio bianco fra le righe e infiamma di passione civile e letteraria il disincanto delle parole.

14 marzo ’68

Caro Annese,

le rispondo con ritardo perché ero fuori Roma, a Londra, dove una sera cercando notizie italiane sui giornali ho letto che a Avellino una bambina era morta per aver bevuto un litro di vermouth. E basta. Ho avuto Budd che mi sembra molto eccitante. Ma che cosa potrei scrivere su Budd? Epigrammi e robe del genere? Può darsi. Gliene manderò qualcuno, mi ci faccia pensare. Quando lei parla della nostra situazione di merda ha detto tutto. Io non so, sto diventando stupido e cattivo. Non sopporto l’odore della merda italiana ma conosco altre merde e potrei anche trovarla migliore. Quello che mi disarma è che il nostro è un paese ormai caratteristico, avviato verso l’hostaria e l’utilitaria, con una borghesia che fa diventare ogni movimento etico subito estetico. Ho le idee confuse. Comunque, Budd va bene. Ne darò in giro le copie, le farò pubblicità. Oppure mi dimenticherò tutto. Non le prometto niente. Forse bisognerebbe fare qualcosa. Parleremo, se verrò a Milano. Immagino che troverò il suo telefono nell’elenco. Se viene a Roma, il mio è 809.869. Lunedì vado via e torno fra dieci giorni. Intanto la saluto. E la ringrazio.

Flaiano

 

2 maggio ’68

via Montecristo, 6

00141 Roma

Caro Annese,

ti accludo una lettera che ti avevo scritto due mesi fa. Ormai è superata dagli avvenimenti, dal nostro incontro milanese -e anche dalla tua nuova così cara lettera. Anyway, te la mando tanto per farti vedere che avevo risposto.

L’averti conosciuto mi ha messo una gran voglia di tornare a Milano. Potremmo passare delle belle serate senza far niente. Sono in preda ad una gran confusione, non capisco più che cosa non bisogna fare. Anche gli epigrammi coi tempi che corrono possono servire al nemico. Ne ho riletti una ventina, che avevo, con disgusto. Che fare? Non lo so. Mi annoio profondamente. Roma è un garage completo. Ti saluto e ti abbraccio.

Flaiano

Ti mando delle strorielle per i più piccini, ma non vanno bene. Se le pubblichi (ognuna chiederebbe un disegnino cul-de lamp alla Lear), non firmarle

Ciao.

 

12 ottobre ’68

Montecristo 6

Caro Direttore,

perché pensi mai che io abbia perduto il tuo indirizzo? Ho perduto soltanto la voglia di scrivere, ma non a te, come vedi, anzi “mi affretto a risponderti” con un ritardo irrisorio. Ho avuto il BUDD negli ultimi due numeri, sempre molto bene. Ho distribuito le vecchie copie a certi amici di Pescara, che purtroppo se ne serviranno per loro trasmissioni radio locali. Il difetto oggi è questo, che tutto viene utilizzato, tutto capito. I portieri vanno a vedere i film di Antonioni e gli intellettuali i film westerns o quelli dei vampiri, perché hanno capito Antonioni e i vampiri, non c’è niente da buttar via. Vivo tra persone che dicono che Shakespeare è un fesso. Preferiscono Peter Weiss. Ma ora neanche più. Ora sono tutti sul punto di preferire sé stessi. Avremo un inverno duro. Costretto a leggere un sacco di romanzi che escono oggi, principalmente per colpa di Rizzoli, (per un premio, naturalmente) ho misurato profondi abissi di stupidaggine. Budd dovrebbe uscire due volte al giorno, e pulire un po’ queste stalle infette. Ma come fare? Ti ringrazio di avermi messo con Marziale, Chamfort e Reich. Chamfort è stato da ragazzo il mio libro, lo trovai nella Universale Sonzogno e fu una rivelazione. Povero Chamfort, aveva scritto otto tragedie e sarebbe restato per i Caratteri e gli Aneddoti. Marziale è stato il mio amore di gioventù, in Spagna sono andato persino a Bilbilis, (Catalaiug), non a Bilbao dove Montanelli crede che sia nato. Quanto a Reich, è il mio amore senile. Ho trascorso tre mesi a Fregene, un posto che ti piacerebbe molto perché è completamente degradato, con un mare che fa schifo (si chiama la Costa Marrone, piena di merda) e con cumuli di immondizie. Ma anche pieno di gatti, cani, puttane, e ora pieno di una solitudine quasi insostenibile. Resisto ancora per qualche giorno, poi a Roma, dove non so che cosa farò, non vale nemmeno la pena di uccidersi in un paese così, pieno ormai di automobilisti e di gente che vuol mettere sù un teatro. Fumo molti toscani, dò da mangiare ai gatti abbandonati, leggo le modifiche apportate alla 500 lusso, guardo gli aeroplani che scendono e so gli orari. Passano tutti sopra la mia casa, l’unica compagnia accettabile. Talvolta penso che tu sei un vero amico, perché come me hai un certo tempo da perdere. Faccio ancora i bagni, capisci, solo, e in un pezzo di giornale trovato in acqua ho letto che la Luna è ormai vicina. Da bambino, la prima volta che andai a teatro, a Pescara, c’era uno spettacolo con Pulcinella che cantava questa canzone:

Luna, lune,

damme nu’ piatte de maccarune.

Sto pensando a un tipo di racconto “utile”, da proporre ad un editore milanese preferibilmente. Un racconto dove i personaggi pur agendo per i fatti propri, danno ricette di cocktails, manicaretti provenzali, consigli d’arredamento, pareri su casi di separazione coniugale, come levare certe macchie, come lucidare l’alluminio, come organizzare le partouzes, come investire i propri risparmi, spiegare la contestazione, il Viet-Nam, un elenco di persone da ricattare, consigli sui delitti perfetti, riduzioni ferroviarie, eccetera.

Bene, ti lascio. Quando vieni a Roma, avvisami. Il telefono ce l’hai. 890.869 – 897.559 –

Ti abbraccio

Ennio Flaiano

 

10 maggio 69

Caro Annese,

sto qui per pochi giorni e ne approfitto per rispondere immediatamente alla tua.Budd ha un bellissimo colore e il numero è molto buono. L’ho distribuito ad amici.

La stanchezza romana è tale che non vale più la pena di parlarne. E’ inutile persino detestarla. Essa è. Immobile e eterna. Allora, via. Sono venuto qui a Parigi afferrando a volo la prima scusa e ci resto per qualche giorno. Sto in un vecchio alberghetto e penso di scrivere, di finire certi racconti, miraggio di tutti quelli che vanno a vivere per un po’ in albergo. Ma anche i racconti sono stati scritti, tutti. Le epigrafi non mi sembra il caso di pubblicarle, troppo onore per i morti.

Invidio la tua forza, io non ho più niente da dire a nessuno, come quando si viaggia in un vagone troppo affollato. Debbo dire che mi fa molto piacere vederti, ma tu vieni e scappi e Roma è troppo complicata, con la famiglia, il telefono, lo pseudo lavoro, le amicizie, etc. Non avrei mai immaginato che dovesse finire così, allora ti abbraccio, spero di vederti.

(I tuoi soggetti vanno benissimo, sono i produttori che non funzionano – e poi oggi il pubblico ha scoperto il sesso e se lo guarda allo specchio – non vuole altro.)

Ciao, a presto spero.

Flaiano

 

15. 6. ’72

Caro Bernardo G. A.

mi dispiace per Bollati!

L’indirizzo di Giorgio Manganelli: via del Gallo, 26 Roma

Tel. 631842

che posso fare di più? Per te?

Sono stato molto indisposto coi miei calcoli renali e questo spiega il ritardo della mia risposta.

Adesso partirò per curarmi.

Non perdere fede nel tuo romanzo.

Ti abbraccio

Flaiano

 

E se non pubblichi questo, pensavamo parlando accalorarti, che pubblicare suoli?

Ma l’uomo Del Monte rispose: Non è per noi, cercate un editore di cultura.

Lo trovammo e andammo in stampa. Era il 1997, e fu allora, caro Andrea, che ci incontrammo. A Milano. Al Le Trottoir, naturalmente.

(Faccia a faccia – incontri, letture, miti letterari – 6 – continua)

https://www.ilmondonuovo.club/dal-giamajca-al-le-trottoir-billy-budd-e-lazzaro-santandrea/