Albino Pierro, L’ultimo poeta in lingua romanza

Poi succede che mentre, fra pensieri vari attorno ai quali ronza come una zanzara la parola fonte, cerchi un modo efficace per dire della scelta rivoluzionaria di Albino Pierro del dialetto tursitano, proprio allora ti imbatti in una suggestiva intervista[1] a due grandi astrofisici italiani e con assoluta evidenza, fuori da ogni logica, nello scrigno di qualche riga intravedi come d’incanto la risposta che cercavi. Ma che c’entra con Albino Pierro l’astronomia multimessaggera dell’intervista? Nulla, ovviamente, però non molli, e insisti e insisti per trovare un senso a una storia che un senso non ha, e pensi chissà forse domani arriverà.

Allora metti quelle parole prima da parte e poi dopo qualche tempo in versi, che è come sfregare la lampada sperando che ancora una volta venga fuori il genio, del resto hai letto in un libro[2] che sassi qualsiasi strofinati e lucidati dal padre dell’autore con carta vetrata per ore ed ore diventavano infine tutt’altra cosa, bellissimi.

Dice quell’autore: «Le parole sono identiche ai ciottoli di mio padre, non possiedono nessuna qualità evidente, non sono né brutte né belle, si confondono tra milioni di altre ugualmente opache e usurate. L’inerzia della parola è la mancanza di significato. Tutto sta nello sfregarle, e poi sfregarle ancora, e ancora – rasentando la demenza».

Perciò a un certo punto quelle parole dell’intervista le scrivi così.

Particelle che «puntano alle sorgenti»

Facciamo un esempio:

Non individuiamo una sorgente

Di protoni cosmici perché

I protoni lungo il cammino

Sono deviati dal campo magnetico

Della nostra galassia, che ne fa

Una specie di melassa, un blob

Che arriva alla Terra senza un ricordo

Della sorgente originaria.

Ma i neutrini, per esempio,

Non subiscono l’influenza

Del campo magnetico.

Sono evanescenti e difficili

Da individuare, ma vanno dritti.

Se si trovasse una sorgente di neutrini

nella nostra galassia, sarebbe fantastico.

Leggi e rileggi, e alla fine è tutto chiaro, almeno per te.

I versi in dialetto tursitano di Albino Pierro sono al di là del frastuono del tempo. Come i neutrini non subiscono l’influenza del campo magnetico. Vanno dritti. Nel loro carico di sentimenti primari portano memoria viva e pulsante della sorgente originaria.

  • La storia di Albino Pierro assomiglia a una fiaba: è mancato, però, il lieto fine. Tocca rimediare. Lo stanno facendo in tanti: per esempio chi ha lavorato alla pubblicazione di Tutte le poesie nei due accuratissimi e pregiati volumi della casa editrice Salerno; il Comune di Tursi che ne ha degnamente celebrato il centenario della nascita; e quanti, dopo il Parco letterario intitolato al poeta, ora si stanno adoperando per far acquisire la Rabatana all’Unesco come patrimonio dell’umanità. Intanto l’antico palazzo della famiglia Pierro nel centro storico di Tursi è una Casa Museo.

Era un giorno di fine ottobre del ’90 quando per un’intervista incontrai don Albino «settespiriti» nella casa di Monteverde nuovo dove viveva in solitaria compagnia dei suoi versi. Anche quell’anno, ancora una volta contro di lui c’erano state le solite, velenose accuse in occasione dell’assegnazione del Nobel per la letteratura. Sempre le stessi fonti, sempre gli stessi canali.

«Il dialetto non è un limite. Quando diventa una vera lingua di poesia, allora vale dappertutto.»

Proprio così: con il tursitano, infatti, don Albino «settespiriti» stava per conquistare il mondo, giungendo in più occasioni alle soglie del Nobel ma ogni volta aveva trovato la strada sbarrata da invidie e polemiche extraletterarie nelle quali la parola più leggera era scandalo.

  • Il dialetto lucano di Tursi per Albino Pierro è stato una faticosa conquista dell’età matura. Professore di storia e filosofia a Roma, dove si era stabilito nel ‘39, fino al ‘59, aveva composto solo poesie in italiano. Poi, il 23 settembre di quell’anno, dopo un viaggio nel paese natale, maturò all’improvviso l’esigenza di esprimersi nella lingua delle proprie origini. Quell’illuminazione, però, avrebbe avuto poco esito senza una lunga elaborazione tecnica. Seguirono, quindi, anni di studio per mettere a punto un rigoroso e personale codice espressivo, coerente e stabile in tutti i suoi elementi, dal lessico al sistema grafico-fonetico. Solo grazie a questo intenso e duplice lavoro di restauro e invenzione filologica, il tursitano è diventato, come ebbe a scrivere Gianfranco Folena, «l’ultima lingua della poesia romanza».

I versi di Albino Pierro – che riscossero gli entusiastici consensi critici di Fiore, De Martino, Contini, Montale e tanti altri – sono percorsi da una mesta e dolente vena elegiaca; sono recupero e consacrazione memoriale di un mondo perduto e sono di una tale limpidità espressiva da conferire valore simbolico universale a quell’umile realtà quotidiana di Tursi che ne è l’oggetto privilegiato. Come, per esempio, l’ormai leggendario quartiere della Rabatana (‘A Ravatène), «la terra dei burroni». Certi sentimenti hanno un unico suono in qualunque lingua o città. La Rabatana di Tursi è ormai mito come tante altre periferie che la letteratura ha trasformato in capitali.

La Rabatana è il quartiere più antico di Tursi. È a picco sul mondo. È una cicatrice della terra sospesa nel nulla. Per arrivarci – scrive Pierro nell’omonima poesia – si sale «‘a pitrizze», una strada di pietre. Su a la Ravatène lampeggia il sole e di notte «nu frusce / di vente… ci fè nasce / nu mère d’erve», un fruscio di vento… ci fa nascere un mare d’erba. Poi ci sono i Ravanatesi («Pòure cristiène!») con la loro miseria, i loro scoppi di rabbia e l’allegrezza delle feste come quando c’è una sposa. Alla Ravatana, però, c’è il ricordo più caro e straziante: quello della madre morta poco dopo il parto del piccolo Albino: «le purtàrene ianca supr’ ‘a sègge / cchi mmi nd’i fasce com’a na Madonne / cc’u Bambinelle mbrazze», la portarono bianca sopra la sedia con me nelle fasce come una Madonna con il bambinello in braccio.

Certe volte la ascolto in una versione musicata[3] e in quel dolore mi rimescolo e riconosco e mi sento parte integrante di qualcosa di più grande. ‘A Ravatène è sorgente primaria di neutrini. Di ogni sapore. È incredibile quanta compatta e armoniosa ricchezza di oscillazioni sentimentali nei suoi pochi versi. Natura e storia, vita e morte, l’una nell’altra senza soluzione di continuità.

Pierro può sembrare un poeta intimista, ripiegato nel proprio passato, ma nella disperazione del suo dialetto c’è quella «chiaroveggenza nel crepuscolo» che – ha scritto George Steiner in Vere presenze – spinse Joyce e Pound a «un’interiorizzazione controllata di tutti i valori, di tutte le eredità culturali». Anche Pierro, con l’improvvisa conversione al tursitano, verificata l’impraticabilità poetica di una lingua, l’italiano, ne inventa un’altra per salvare nella memoria un mondo mezzo crollato («menze sciullète»), come egli dice nella poesia a Guido Capitolo.

La terra del ricordo, titolo dell’opera del ‘60, prima sezione del volume Metaponto, è dunque il paradigma d’una pienezza che non c’è più, d’una parola alla quale prima che essa esaurisca del tutto la propria forza di rappresentazione – in affanno contro il tempo, con radicale e coraggioso cambio in corsa del codice – si chiede un’ultima, eroica «vampata di sole» (Nemmeno una più) per illuminare quei luoghi d’un mito che rischia di essere perduto. Quello di Albino Pierro è un pessimismo agonistico: «ll’amm ‘a fè i’èsse forte / sti vrazzicèlle noste fine fine / ca pàrene di vitre / o i vrazzicèlle ianche d’i mahète», dobbiamo farle essere forti queste nostre braccine sottili sottili che sembrano di vetro o le braccine bianche dei malati.

Così noi, dobbiamo farla essere forte la nostra voce di meridionali: forte e nuova. Come una vampata di sole. Come una nuova lingua romanza. Con tutto il suo antico, eroico strazio.

Nessuno crede più alle favole, purtroppo. Anche quando sono belle come quella del poeta che inventò una lingua per dare voce al proprio cuore. E così incantò perfino gli uomini di un paese lontano, molto lontano dalla sua terra, tanto da spingerli ad assegnargli il premio più ambito, quello che essi chiamano Nobel.

Questa, dunque, è la «favola» di Albino Pierro, «poeta in dialetto», lucano di Tursi, settantaquattro anni.

E non ci sarebbe altro da aggiungere: se non il rammarico per quel premio sfumato. Non ci sarebbe altro da aggiungere anche perché Pierro, benché indignato e furente, è sempre stato pronto a liquidare la questione con un secco e sbrigativo: «Ma io non ci ho mai messo pensiero». Questa frase, infatti, ripetette più volte nel corso di quella nostra conversazione nel lontano ottobre 1990. Solo insistendo riuscimmo a strappargli un «facile» commento: «Se c’è un motivo per cui potrei essere speranzoso è perché ho dato al mondo una nuova lingua poetica, il tursitano, di cui ho dovuto inventare anche la grafia perché non avevo modelli. Oggi del tursitano sono state studiate anche le concordanze come per Porta e Belli».

Ma gli uomini, dicevamo, non credono più alle favole: soprattutto quando sono vere, più vere della «verità». Difficilmente si arrendono alla semplicità delle cose.

Nel caso di Albino Pierro è accaduto, infatti, che autorevoli giornali abbiano ripetutamente accreditato pettegolezzi e voci in base alle quali la «fortuna» del nostro autore in Svezia non si sarebbe alimentata di ragioni poetiche ma della «sponsorizzazione» politica di un ministro conterraneo, e, poi, addirittura del Presidente del consiglio dell’epoca. A questa manovra di accerchiamento e «pressione» sull’Accademia di Svezia (da qualcuno definita addirittura «scandalo culturale del secolo») si sarebbe prestato, stanziando ingenti somme per diffondere l’opera del poeta lucano in Svezia, l’Istituto italiano di cultura operante in quel Paese.

Tale manovra, anzi, ripetendosi per anni, (Pierro è stato candidato al Nobel oltre che nel ’90, anche nell’85 e nell’88) avrebbe causato (per l’indignazione dell’Accademia svedese) la mancata attribuzione dell’ambito premio ad altri autori italiani come Sciascia, Calvino, Luzi e addirittura Moravia (il quale, sempre secondo le stesse fonti, in deroga al regolamento, avrebbe potuto ottenerlo alla memoria).

Quando lo incontrammo, in realtà, Albino Pierro da dieci anni viveva «nella solitudine più totale» nel suo piccolo e modesto appartamento di Monteverde nuovo a Roma, dove si era trasferito nel ’39. Baffi sottili, volto affilato, occhi neri e molto vivaci. Magro come un chiodo ma non canna al vento che si lasciasse piegare da soffi maligni. Albino Pierro era un «settespiriti» (come lo definì nel ’58, con un’immagine che piacque a Bettocchi, uno dei suoi primi estimatori, Cesare Vico Lodovici).

Pierro era indignato, furente: «Io non ho tessere e non sono di alcun partito politico. Io vado alla ricerca dell’uomo che si possa rispettare».

Allora, gli chiedemmo, com’è andata la sua avventura in Svezia?

«Io – rispose Piero – in Svezia non pensavo affatto di andarci. Ci sono andato per la prima volta nell’82 per le insistenze durate un anno – con telefonate ogni quindici giorni – di una signora che neppure conoscevo e che si era innamorata della mia poesia. Questa signora era amica della direttrice dell’Istituto italiano di cultura che organizzò la visita». E fu un successo.

In quell’occasione Pierro era accompagnato dal prof. Folena, che ancora ricordava in termini entusiastici quell’incontro con il pubblico svedese e per telefono poi ci disse: «Sì, fu un enorme successo. Le poesie furono lette prima da un attore svedese con accompagnamento musicale e proiezione di diapositive di Tursi; poi in italiano e, quindi, in dialetto da Pierro che conquistò tutti con quei suoi scoppi di voce. Allora nessuno pensava al Nobel, ma il successo di Piero in Svezia è cominciato quella sera, con quella sua recitazione. E poi allora in Svezia c’era interesse per il Sud e i suoi problemi. Ricordo che c’erano varie mostre su questo tema ed io, nel mio intervento, cercai di evidenziare come nella poesia di Pierro ci siano temi presenti anche nel cinema di Bergman».

In otto anni, poi, in Svezia, Albino Pierro dilagò come dimostra il voluminoso fascicolo con i ritagli dei giornali svedesi sui quali negli ultimi tre mesi prima di quell’ottobre ’90 erano apparse recensioni della sua ultima opera tradotta, Metaponto. Era davvero nutrito quel fascicolo, che Albino Pierro durante il nostro incontro ci mostrò con orgoglio.

«Io non voglio entrare in polemica con nessuno – disse il poeta – ma questi sono i fatti. Ed è un fatto anche l’ammirazione nei miei confronti di Ingvar Bjorkeson, il traduttore in Svezia di Dante, Leopardi, Foscolo, Petrarca, Virgilio, Baudelaire, Omero e Properzio. È stato Bjorkeson a battersi per la pubblicazione e la diffusione in Svezia della mia opera.» Cosa che, in effetti, Bjorkeson aveva sempre sostenuto e di nuovo pubblicamente ribadito in una nota apparsa proprio in quei giorni su un importante quotidiano svedese, Dagens Nuhster, 17 ottobre 1990, nella quale tra l’altro specificava: «… dall’Istituto italiano di cultura a Stoccolma ho ricevuto una modesta ricompensa, secondo la prassi usuale quando i libri sono pubblicati in collaborazione con case editrici svedesi». Come è avvenuto nel caso di Pierro, pubblicato in Svezia da Natur och Kultur che di contributi ne ha avuti ma dal Consiglio di cultura dello Stato svedese.

Dunque bisogna arrendersi alla semplicità delle cose e ammettere, come ci disse Pierro che: «Il dialetto non è un limite. Quando diventa una vera lingua di poesia, allora vale dappertutto. Il limite è per il lettore che non conosce la lingua e deve quindi sforzarsi di capirla. Ma c’è stato anche un grande scrittore che al tramonto della vita ha imparato lo spagnolo per leggere Cervantes. La mia è una poesia di carattere universale».

Pierro, comunque, nonostante nel nostro Paese non sia ancora popolare come merita («Ma io non sono Raffaella Carrà, non vado in televisione, non sono uno che sta dappertutto») di amicizie ne ha avute tante anche in Italia («Sono conosciutissimo») e sono quelle rispettabilissime e legittime dei tanti studiosi (da Fiore a De Martino, Contini, Marti, Zambon…) che si sono occupati della sua poesia e i cui interventi critici sono stati raccolti in volume da Lacaita (Omaggio a Pierro, a cura di Antonio Motta).

Ma allora come nascono certe voci? Pierro allargò le braccia e tirò indietro il capo con un sospiro: «È la pianta uomo. Da che mondo è mondo… Tanto io non ci ho mai messo pensiero».

Non è vero, però, che alla nostra fiaba manchi il lieto fine. Ci disse allora a telefono Gianfranco Folena: «A me non risultano pressioni e lotte, né candidature di altri poeti italiani. Mi auguro, comunque, che tutte queste beghe vengano dimenticate presto perché hanno danneggiato la cultura italiana. Rimpiango che Pierro non abbia avuto questo riconoscimento e spero che si ripresenti la possibilità. I valori, del resto, non tramontano»… perché la grande poesia, come quella di Albino Pierro, «Più d’ogni cosa è necessaria agli uomini, / ma essi intendono meglio ciò che è complesso[4]».

 

[1] Ida Bozzi, La lingua dell’universo,  intervista ad Alessandro De Angelis e Marco Tavani,

Corriere della Sera (La Lettura), 17 marzo 2024, https://bit.ly/4kuRaqR

[2] Emanuele Trevi, La casa del mago, Ponte alle grazie, pagg. 116-117

[3] Antonio Labate, ‘A Ravatène, https://bit.ly/4j6XLq0

[4] Boris Pasternak, Le onde, lettura di Carmelo Bene https://bit.ly/3Fd3ih3

 

Faccia a faccia – incontri, letture, miti letterari – Il mondonuovo.club

https://bit.ly/43EQHLL  (8 – continua)