C’erano una volta le lucciole nei campi, poi sono sparite e con esse la civiltà contadina. C’era una volta nel cuore della capitale «la buona società», non c’è più neanche quella. Dell’una ci ha detto Pasolini anni fa, dell’altra ci dice ora Alessandro Piperno in Dove la storia finisce.
Nella periferia hanno prevalso il cemento e la smania dei consumi. Nei salotti borghesi «le stock option e gli avvisi di garanzia». Quella che un tempo era classe dirigente ora «non ha più nome, né prestigio, né distinzione, solo qualche brutto presentimento di casta».
Come un ancien régime pronto a saltare al botto di una qualche violenza, nel romanzo di Piperno essa appare in tutta la sua irredimibile vacuità ancor più perché l’autore la raffigura senz’alcuna acredine moralista ma con disinvolta e quasi svagata eleganza.
In Dove la storia finisce non ci sono gli sguaiati trenini del film di Sorrentino, La grande bellezza, ma neppure «le bionde, adorabili famiglie di Roma nord… soppiantate da un demi-mondemalavitoso con i tricipiti in rilievo, fichette d’ordinanza e grandi plateau di crudi». Quando poi sono politicamente corrette, le feste sono ancor più insulse e ipocrite.
La critica chirurgica e la brillante leggerezza della scrittura di Piperno marcano distanze di mondi e dissacrano trasversalmente tanto l’ex accademico, deputato comunista e giudice della Corte costituzionale, quanto l’illustre nonché ricchissimo avvocato, principe del foro, e ancor più il brillante furbetto del quartierino capace di dilapidare in un velleitario progetto imprenditoriale patrimonio d’origine, sicurezza e serenità familiare.
Dove la storia finisce è il magistrale racconto di una slavina che diventa una valanga. A precipitare a valle sono Giorgio e Martina Zevi, figli dello stesso padre ma rispettivamente della prima e della seconda moglie. Lui era un adolescente, lei ancora una bambina quando il papà scappa a Los Angeles per sfuggire alle pesanti minacce di un creditore.
Dopo quindici anni e altre due mogli americane, Matteo torna a Roma: è lo stress interno che rompe il fragile equilibrio che la famigliola allargata (i due fratellastri e Federica, la mamma di Martina) aveva raggiunto in un silenzioso e reciproco patto di mutuo soccorso. La forza di gravità vince sulla coesione psicologica di ciascuno. Parte la slavina.
La rovina dei tre corre ingigantendosi lungo il pendio scosceso del degrado complessivo del loro habitat naturale, che ha il proprio fulcro nel gotha ebraico romano rispetto al quale, però, essi sono tutti in qualche modo eccentrici. Martina: «Le persone ci umiliano e noi non sappiamo come reagire. Gli rendiamo la vita facile e loro credono di poter disporre di noi, smettono di rispettarci».
Accade, quindi, che Giorgio rifiuti categoricamente di vedere il padre benché finallora avesse mantenuto con lui rapporti cordiali e al contempo vive quasi con fastidio la gravidanza della moglie Sara, scoprendo in sé insospettate tracce di anaffettività. Martina, invece, si riaccende al ricordo di un bacio proibito ed è pronta a mandare all’aria il suo ottimo matrimonio per certi nuovi e indomabili desideri.
Dopo quindici anni di rassegnata solitudine, Federica si riconsegna al vecchio amore inerme come un capro espiatorio. La verità è che, compreso Matteo, pietra dello scandalo, gli Zevi sono tutti «lì a espiare chissà quale colpa remota». C’entra la vicenda familiare, c’entrano l’educazione borghese e l’ideologia comunista, c’entra la religione: «Cosa c’era di così eroico nel fare sempre e comunque la cosa giusta?… La lealtà non ti serve se ti rende infelice».
La salvezza allora è, forse, in un nuovo inizio, in un traumatico distacco che rovesci e riscatti il peccato originale dell’abbandono paterno. Come una volta le Colonne d’Ercole, Dove la storia finisce con la sua circolare compattezza narrativa e certi passaggi forti della trama marca il confine di un mondo e pone a tutti l’urgenza di trovare una rotta nel mare aperto dell’apocalittica inquietudine contemporanea.
Alessandro Piperno, Dove la storia finisce, Mondadori, 2016
Su Alessandro Piperno puoi leggere anche la recensione de Il manifesto del libero lettore